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Terapie intensive in crescita. Riccio: "Ripensiamo alle priorità dei ricoveri"?

Terapie intensive in crescita. Riccio: "Ripensiamo alle priorità dei ricoveri"?
L'anestesista e rianimatore Prof. Mario Riccio

Ha riaperto il covid hospital di Codogno, l’ospedale simbolo del coronavirus in Italia, il 14 gennaio riaprirà la struttura temporanea per la cura del Covid della Fiera di Milano, dove in terapia intensiva ci sono stati ben 500 pazienti.
Il virus, con la variante omicron, corre più che mai e la saturazione dei posti disponibili in ospedale,
in particolare quelli in rianimazione, può paralizzare l’attività medica ordinaria, non potendo garantire adeguata assistenza ad altri malati, anche gravi.
L’obiettivo è salvare tutti, ma il Covid impone temi etici prima di oggi inesplorati, perché mai ci siamo ritrovati in situazioni simili.

La direttiva per gli anestesisti

Negli ultimi giorni del 2021, la Società italiana di anestesia e rianimazione ha inviato ai medici un documento in cui si invita a insistere con le persone che non vogliono farsi intubare nel caso sia necessario, desistendo solo quando risulta chiara la consapevolezza che il paziente ha capito la gravità del suo rifiuto.

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Una linea che non è condivisa in tutto e per tutto da tutti gli operatori sul campo.
«Mi sarei aspettato una riflessione esattamente contraria – dice il direttore del reparto di Terapia intensiva di Casalmaggiore (CR), Mario Riccio. –  Pur senza mai abbandonare alcun paziente, secondo me ci si dovrebbe chiedere come porci di fronte a chi, vaccinandosi, ha scelto di voler vivere e magari, per una sua fragillità congenita, rischia di non trovare un posto letto o di dover rinviare ad esempio un’operazione per un tumore attesa da tempo».
Andrebbe quindi valutato se sia giusto o no dare priorità comunque, se con maggiori speranze di vita, a coloro che hanno rifiutato di vaccinarsi contro il Covid rispetto a chi si è ammalato nonostante la somministrazione del siero.

Cosa succede nelle terapie intensive

Riccio ricorda che criteri per l’ammissione alla terapia intensiva ci sono sempre stati, dall’età alle patologie concomitanti.
«Un triage – sottolinea – è sempre stato fatto: il Covid ha solo esacerbato il problema».
Pur non avendo ancora raggiunto i livelli di ondate precedenti, in alcune situazioni particolari anche questa ondata si sta avvicinando a numeri critici.
«Almeno i due terzi dei pazienti in terapia intensiva per il Covid sono non vaccinati, con l’unico “vantaggio” di essere più giovani, ma per il resto in condizioni disperate dopo essersi curati in casa o con terapie non convenzionali – spiega l’anestesista e rianimatore. – In molti casi, con poche chance di farcela, chi prima ha negato l’esistenza del Covid e poi ha deciso di non vaccinarsi occupa posti letto nei reparti di rianimazione, che non riescono ad esempio più ad ospitare i post operati».

Il codice etico e la legge impongono di insistere nel far comprendere al paziente il rischio legato al rifiuto delle terapie. «Nessuno – precisa Riccio – può costringere qualcuno a essere intubato. Al tempo stesso, finché ci sono risorse, un paziente in condizioni disperate viene sottoposto al trattamento. E, siccome spesso arrivano senza essere in grado di intendere e di volere, in assenza di una documentazione chiara e precisa sul suo rifiuto, non può bastare l’intervento di un parente, che non ha nessun titolo giuridico, per impedire le cure. Non mi è per fortuna mai capitato di veder morire qualcuno che ha rifiutato di essere intubato, ma ad alcuni colleghi sì. E penso che la drammaticità della situazione sia evidente».

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L’importanza del vaccino

Mario Riccio, che ha fatto anche il vaccinatore, lancia dunque un ulteriore appello.
«Il caso più eclatante in tal senso –
conclude – è quello di Mario da Mantova, della cui morte non posso che dispiacermi, anche perché è stato vittima di se stesso e della presenza mediatica di chi sobilla queste persone. Per questo invito intellettuali, giornalisti, uomini di cultura e filosofi a non porsi domande inutili. Perché è evidente: tranne situazioni particolari di estrema fragilità, chi è vaccinato con tre dosi non morirà di Covid, né finirà in terapia intensiva. Potrà contagiarsi ed essere contagioso e in casi limite finire in ospedale, ma al massimo in reparti ordinari. Ognuno è libero di negare che ci sia la peste, ma il virus non legge i giornali e può colpire chiunque. E io mi faccio solo portavoce dei molti sanitari che sono stufi ed esausti della situazione, che anche eticamente è molto impegnativa».

Terapie intensive: i dati

L’ultimo bollettino ufficiale, relativo ai dati dell’11 gennaio 2022, parla intanto di 185 nuovi ingressi nei reparti critici degli ospedali, con il totale di ricoverati salito a 1.677. E sono sempre più i giovani e i giovanissimi che sviluppano un Covid grave, con un’incidenza superiore tra le 2 e le 3 volte rispetto ad altre fasce d’età.
Da inizio pandemia, sottolinea la Società italiana di pediatria, sono stati ricoverati in terapia intensiva 268 bambini e ragazzi sotto i 19 anni, 5 dei quali tra il 28 dicembre e il 5 gennaio.
Di questi, 68 hanno meno di 3 anni e 76 tra 16 e 19 anni, che sono le fasce più colpite. Seguono 61 casi tra 12 e 15 anni, 39 tra 6 e 11 anni e 24 tra 3 e 5 anni.

Il Ministero della Salute ha quindi pubblicato i dati forniti dall’Istituto superiore di Sanità per il mese tra il 12 novembre e il 12 dicembre. Nel periodo preso in considerazione, ogni 100 mila persone, hanno richiesto cure in rianimazione mediamente 23,2 non vaccinati, 1,5 persone che si erano vaccinate da oltre 4 mesi, 1 che aveva completato il ciclo vaccinale da meno di 4 mesi e 0,9 che avevano ricevuto la dose booster.
Percentuali che salgono se riferite al semplice ricovero: 172,4 ogni 100 mila non vaccinati, 22,3 ricoverati tra i vaccinati da più di 4 mesi e rispettivamente 13,7 e 8,8 ospedalizzati tra i vaccinati con due dosi da meno di 120 giorni e tra chi si è sottoposto al richiamo aggiuntivo.

Malati Covid e non Covid

A queste statistiche si aggiunge uno studio della Federazione Italiana Aziende Sanitarie e Ospedaliere. A essere presi in considerazione sono stati i dati al 5 gennaio dei ricoveri in 6 grandi Aziende ospedaliere e sanitarie, in cui finiscono il 4% dei ricoverati italiani: dagli Spedali civili di Brescia al Policlinico San Martino di Genova, dall’Aou di Bologna, ai Policlinici di Bari e Tor Vergata di Roma, al San Giuseppe Moscati di Avellino. Ne è emerso che, anche in caso di positività scoperta in occasione dell’effettuazione del tampone pre-ricovero, il 34% dei ricoverati finisce in ospedale per altre patologie: traumi, infarti, emorragie, scompensi o tumori.
«Sarebbe più opportuno – è quindi intervenuto sulla questione, emersa nelle ultime ore, dell’opportunità di proseguire con i bollettini giornalieri il presidente della Società Italiana di Epidemiologia, Cesare Cislaghi – comunicare solo il numero dei ricoverati. Se questi crescessero molto, diventerebbero insostenibili per il servizio sanitario. Se i casi di positività crescessero sino a 500.000 al giorno, ipotesi non del tutto impossibile, anche se gli accessi in terapia intensiva scendessero allo 0,2% sarebbero 1.000 al giorno. E, considerando una degenza media di 20 giorni, si avrebbe una presenza di 20 mila malati gravi con la necessità di essere ricoverati in terapia intensiva: una situazione sicuramente non sostenibile con le strutture esistenti».

Alberto Minazzi

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