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I cani nel linguaggio dissacratorio e nella vita dei veneziani

I cani nel linguaggio dissacratorio e nella vita dei veneziani

 Giornata Internazionale del cane: da sempre amato anche a Venezia nonostante al cane si leghino modi di dire…noti e davvero poco complimentosi

 

Dire a qualche veneziano che ha i “morti cani” è una delle peggiori offese che possiate fargli.
Sulla gravità di tale animalesco richiamo all’onorabilità degli avi esiste una favoletta, che risale all’epoca delle prime ricerche in medicina, fatte spesso a spese di cadaveri disseppelliti dai cimiteri cittadini.
Si racconta come, per far fronte all’ inconveniente di far finire un parente sul tavolaccio dei sezionatori, le famiglie più abbienti pagassero dei guardiani per alcuni giorni successivi alla sepoltura, finché le condizioni del corpo fossero tali da non poter essere più utilizzato.
Chi non poteva permettersi delle persone, legava nei pressi della tomba dei cani feroci, che azzannassero chiunque si avvicinasse troppo.
Sarebbe da questo accostamento tra il “morto” e il “cane” che nascerebbe l’offesa, con la quale implicitamente si darebbe del pezzente all’interlocutore.

Difficile che sia vero, però, in una città che fin da tempi antichi ha garantito il primato alle scienze, con un gabinetto anatomico in laguna e l’altro a Padova.

I cani di Canaletto, Longhi e Tiepolo

Più facile che il favolista che l’ha inventata fosse un po’… cane. Perché, sebbene Venezia sia città felina per antonomasia, sorniona e popolata di gatti, anche i cani compaiono qua e là nell’iconografia veneziana, specialmente nella pittura: Canaletto e Longhi ne ritraggono molti, inserendoli nelle loro vedute. Giovanbattista Tiepolo, nei grandi affreschi di Palazzo Labia che illustrano la vita di Cleopatra fa tenere al guinzaglio un grande levriere da un moretto, nella scena che mostra l’imbarco di Marcantonio e della regina: si dice sia un cane appartenuto alla bella Elena Barozzi, moglie di Nicolò Balbi, che pregò il pittore di effigiarlo nel dipinto.

Cani come dono della Serenissima

D’altronde, il costume di tenere dei cani – da caccia o per compagnia – è molto più antico.
Cecilia Venier Baffo, figlia del podestà veneziano di Paros, Nicolò Venier, rapita bambina dagli Ottomani attorno al 1537 e divenuta favorita di Selim II e successivamente sultana madre di Murad III, nel mantenere rapporti costanti con la Serenissima, attraverso l’invio di biglietti, un giorno si lamentò col Bailo a Costantinopoli Francesco Morosini per due cani avuti in dono dalla Repubblica: “però [di] tal sorte di cagnoli – scrisse nella lettera diretta al diplomatico – non hò bisogno per esser grandi, et per haver del bracco; ma che siano bianchi et piccioli…”. Nella stessa missiva chiese anche un buon numero di “cussini di qualche panno d’oro vago et vistoso, […] et per fodra qualche raso ò damasco, o brocadello de seta”, e altri di panno di lana “di due altezze…”. Il Bailo informò della cosa il Senato, che il 4 giugno 1583 stanziò duemila zecchini per acquistare doni per la sultana madre (che, per inciso, morì il 7 dicembre di quell’anno).

Cane nero o Belzebù?

A Venezia poi gli animali, a cominciare dal leone alato che ne sottolinea l’intima natura felina, hanno spesso un’aura mitica, o sono legati a leggende.
E se il decano di ogni cane è quello legato a San Rocco e alle sue ferite (e a San Rocco, non va dimenticato, è dedicata una delle prestigiose Scuole Grandi veneziane), non si può non fare menzione del grande cane nero – in realtà il diavolo – che sull’isola del Monte dell’Oro fa la guardia al leggendario e perduto tesoro di Attila.
Lo stesso demonio che altrove, in città, si presenta sotto altre forme. Ma lui è Belzebù e prende la forma che gli pare; Di lui, magari, torneremo a parlare in occasione della prossima Giornale Internazionale del Gatto…

 

 

 

 

 

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Tag:  cane, Venezia

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