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Cancro al seno: con il monoclonale, meno chemio, stessa efficacia

Cancro al seno: con il monoclonale, meno chemio, stessa efficacia

Lo studio: sul lungo termine, stessa efficacia e minore tossicità per i tumori aggressivi in stadio iniziale

Ridurre l’intensità della chemioterapia, riducendone la tossicità e i conseguenti effetti collaterali, ma mantenendo la stessa efficacia del trattamento, grazie al trattamento combinato con un anticorpo monoclonale.
Quella che poteva sembrare un’utopia, adesso è una realtà scientificamente confermata per alcuni tumori al seno tra i più aggressivi, purché trattati in fase iniziale.
“Questo lavoro rappresenta una pietra miliare nella storia del cancro alla mammella”, commenta Giuseppe Curigliano, direttore della Divisione nuovi farmaci per terapie innovative dell’Istituto Europeo di Oncologia, commentando in un editoriale i risultati di una ricerca internazionale pubblicata sulla rivista Lancet Oncology.

I tumori “HER2-positivi”

Lo studio si è concentrato sui cosiddetti tumori “HER2-positivi”.
Si tratta di forme di cancro del seno particolarmente aggressive dal punto di vista biologico e caratterizzate dalla sovraespressione del recettore per il fattore di crescita epiteliale, che rende probabile una risposta non ottimale alle più comuni terapie endocrine e una resistenza alla chemioterapia standard.
I tumori “HER2-positivi” rappresentano il 15% dei nuovi casi di carcinoma mammario e, oltre a presentare un’elevata mortalità, hanno la tendenza a ripresentarsi con una certa frequenza.
D’altro canto, si tratta di forme tumorali che rispondono e possono beneficiare del trattamento terapico mirato con l’anticorpo monoclonale Transtuzumab, che viene quindi spesso associato alla chemioterapia standard.

L’importanza del trattamento rapido e la “de-escalation”

Lo studio appena pubblicato è il punto d’arrivo di un percorso iniziato nel 2009 all’Istituto Europeo di Oncologia, dimostrando che, se diagnosticati in fase molto precoce, i tumori “HER2-positivi” hanno una prognosi molto buona, potendo essere trattati con efficacia attraverso l’impiego di terapie chemioterapiche meno aggressive e, di conseguenza, meno tossiche.
“Si può fare di meno ottenendo di più”, sintetizza Curigliano.
Da allora, i ricercatori si sono dunque concentrati sulla cosiddetta “de-escalation”, o modulazione di intensità delle cure, arrivando a dimostrare sicurezza ed efficacia di una chemioterapia più leggera, che consente alle pazienti di avere una prospettiva di vita più lunga e qualitativamente migliore, per la riduzione degli effetti collaterali della cura sull’organismo.
La riduzione dell’intensità della terapia adiuvante, cioè, non diminuisce l’efficacia del trattamento.

Verso la personalizzazione dei trattamenti

Il lavoro appena pubblicato conferma che i benefici della de-escalation si conservano nel tempo.
Nella sperimentazione condotta dal Dana Farber Cancer Institute sono state coinvolte 406 pazienti, con un tasso di sopravvivenza a 10 anni del 98,8% e sole 6 recidive.
“ I nostri dati – sottolinea Paolo Tarantino, coautore dello studio – supportano l’ipotesi che il regime di cura de-escalation rappresenti un adeguato standard terapeutico per piccoli tumori mammari HER2-positivi”.
Gli studiosi, inoltre, hanno identificato una relazione tra l’evoluzione della malattia e un biomarcatore del rischio chiamato “HER2DX”.
Se i dati saranno confermati, in futuro sarà dunque possibile una personalizzazione dei trattamenti in base alla biologia di ciascun tumore HER2-positivo. Altro obiettivo di prospettiva, la realizzazione di una metodologia per il disegno di studi di de-escalation potenzialmente per tutti i tipi di tumore.

Alberto Minazzi

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Tag:  tumori