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Tubercolosi: da un giovane ricercatore italiano, una rivoluzione nelle cure

Tubercolosi: da un giovane ricercatore italiano, una rivoluzione nelle cure
Lorenzo Guglielmetti

Intervista a Lorenzo Guglielmetti, collaboratore di Msf inserito per le sue scoperte nella lista “Time 100 Health 2025” tra i nuovi “grandi” della medicina mondiale

Tra le 100 persone più influenti al mondo nel campo della salute, selezionate nella nuova classifica annuale “Time 100 Health 2025”, ci sono anche due italiani.
Uno, inserito nella categoria “Leader”, è il 53enne calabrese Francesco Rubino, che ha guidato lo scorso anno un gruppo di 50 esperti incaricati dalla rivista “Lancet” di ridefinire l’obesità come malattia. Il secondo nuovo “grande” della medicina è invece il 42 enne ricercatore trentino Lorenzo Guglielmetti.
Laureato e specializzato in Medicina all’Università di Verona, ha iniziato una decina di anni fa il progetto “End Tb, finalizzato al miglioramento delle terapie farmacologiche per la tubercolosi.

Lorenzo Guglielmetti

E, come riportato nello studio pubblicato quest’anno sul New England Journal of Medicine, il risultato è da considerarsi una vera e propria svolta nel campo del trattamento di una delle forme più insidiose di questa malattia. Perché la combinazione di farmaci testata da Guglielmetti è in grado di offrire una cura per coloro che risultano resistenti alla rifampicina, ovvero l’antibiotico battericida più efficace contro la Tbc.
Un risultato che non ha fatto in nessun modo montare la testa al giovane ricercatore, disponibilissimo a rispondere alle nostre domande da Parigi prima di rientrare in Italia dove, da metà giugno, inizierà un nuovo incarico all’Irccs ospedale Sacro Cuore don Calabria di Negrar, nel Veronese.

  • Dottor Guglielmetti, si aspettava questo riconoscimento? E cosa significa, per lei?

“Non me l’aspettavo, no. Anche perché, in tutta sincerità, pur conoscendo la rivista Time, non conoscevo in precedenza l’esistenza di questa lista. Ma sono stato da subito estremamente soddisfatto. È un riconoscimento individuale, perché è così che funziona, ma al tempo stesso trovo giusto condividerlo con tutti coloro che, in questi 10 anni, hanno collaborato al progetto, che ha coinvolto oltre 100 persone, un migliaio di pazienti e varie organizzazioni, a partire da Medici Senza Frontiere (Msf)”.

  • Cosa cambia, con le sue scoperte, nel trattamento della tubercolosi?

“Va fatta innanzitutto una premessa, ricordando che questa malattia è la prima causa di mortalità per singolo agente infettivo al mondo. Si tratta di una patologia antichissima, che ancor oggi registra quasi 11 milioni di casi e circa 1,5 milioni di morti ogni anno, con particolare incidenza tra i bambini: basti pensare che ogni 3 minuti causa, nel mondo, un decesso in età pediatrica. Numeri impressionanti di una pandemia che praticamente da sempre accompagna la specie umana e che, purtroppo, presenta forme in cui il principale farmaco disponibile non funziona a causa dello sviluppo di una resistenza all’antibiotico specifico maggiormente utilizzato, che interessa circa mezzo milione di persone ogni anno. La ricerca guidata da Medici Senza Frontiere e altre organizzazioni ha così puntato a trovare un trattamento più efficace, meglio tollerabile e più corto rispetto a terapie che richiedono di essere applicati per periodi di tempo fino a 2 anni”.

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Tubercolosi (@endtb.org)
  • E a cosa siete arrivati col progetto “End Tb”?

“Quando siamo partiti, 10 anni fa, ero solo un giovane medico ricercatore appena assunto. Il progetto è partito allora per le nuove opportunità legate a una sorta di finestra che si è aperta con lo sviluppo da parte delle case farmaceutiche, anche grazie al sostegno con fondi pubblici, e la successiva approvazione di due nuovi farmaci specifici per la tubercolosi. Al riguardo, bisogna ricordare che, nelle terapie per questa malattia, si usano sempre e obbligatoriamente combinazioni di farmaci, per evitare proprio lo sviluppo di resistenze. Lo sviluppo clinico, però, si era fermato alla seconda fase: noi siamo partiti da qui, completando la terza, e più complicata, cioè quella delle combinazioni in associazione tra farmaci diversi. E, alla fine degli studi clinici decennali, abbiamo individuato una combinazione tra 4-5 farmaci in grado di dare risultati eccellenti, con un tasso di successo tra l’80% e il 90%, una miglior tollerabilità, la non necessità di iniezioni, visto che si tratta di una terapia interamente orale, e la riduzione del periodo di cura a 9 mesi”.

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  • Quali sono, adesso, le prospettive?

“Prima di tutto, permettetemi di correggere una fake news circolata in occasione della pubblicazione della classifica: non sono 410 mila le persone già trattate con successo con questa terapia. Questa cifra si riferisce solo al numero di malati di tubercolosi resistente che potenzialmente potrebbero usufruire del trattamento. In realtà, siamo solo all’inizio, alla fase dei trial, che hanno fin qui riguardato un migliaio di persone. Però, nel frattempo, lo scorso anno è arrivata l’approvazione dell’Oms, che adesso ha pubblicato anche le relative linee guida. È insomma arrivato il momento dell’utilizzo concreto, che, a quanto mi risulta, è già partito, sia pure da poco, in diversi Paesi”.

  • Sono possibili ulteriori miglioramenti?

“Certamente. Questa, per quanto importante, è solo una tappa, che permetterà di superare un trattamento tossico, lungo, doloroso e, in fondo, nemmeno troppo efficace, tant’è che quasi la metà di chi vi era sottoposto si fermava prima di arrivare a completare il biennio di cura richiesto. Siamo arrivati a 9 mesi e un mix di 4-5 farmaci, che rendono chiaramente anche il nostro trattamento ancora lungo e complicato, ancora “di nicchia”, ben lontano da una disponibilità “friendly”. L’obiettivo che ci siamo posti è quello di riuscire ad associare con efficacia farmaci ancor più semplici e arrivare a trattamenti sempre più brevi. Al riguardo, penso che sia ragionevole puntare a un prossimo step che consenta di ridurre i tempi a 1-2 mesi”.

  • Riuscirà a proseguire gli studi anche con il nuovo incarico a Negrar?

“Anche se il progetto con Medici Senza Frontiere è finito, la collaborazione con loro per questo tipo di ricerca continua. E lo farò proprio a partire da Verona, con le sue realtà ospedaliere e universitarie, ma con la massima apertura alla collaborazione con altri atenei. A Negrar, dove inizierò a breve il nuovo incarico, sono stato del resto assunto proprio come ricercatore in questo ambito, oltre che per un impegno clinico nell’attività ambulatoriale dedicata alla tubercolosi. L’obiettivo, del resto, è quello di riuscire a ottenere un impatto globale con le nostre ricerche”.

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Lorenzo Guglielmetti
  • A proposito, lei sta per tornare in Italia dalla Francia: una risposta a chi parla di “fuga di cervelli” dal nostro Paese?

“So che questo è un tema di cui, mediaticamente, si parla molto, ma non c’entra nulla con il mio caso personale. Io sono partito perché volevo cambiare aria dopo laurea e specializzazione, ma allora avrei potuto scegliere benissimo anche una località italiana per continuare gli studi e diventare ricercatore, oltre che medico. La destinazione di Parigi, dove poi sono rimasto 10 anni, si è presentata un po’ per caso, ma mi sono trovato bene e soprattutto ho conosciuto da vicino Medici Senza Frontiere, con cui ho iniziato a collaborare dal 2017, svolgendo un lavoro che è stato per me molto importante”.

  • Quel che vuole insomma dire è che il discorso delle “bandiere”, in campo scientifico, non conta nulla?

“Già. Il ragionamento secondo me è va affrontato con prospettive molto più larghe, sia in un senso che nell’altro, visto che noi italiani a volte rischiamo di essere un po’ troppo esterofili. Sulla base dell’esperienza personale, posso infatti dire che non ho riscontrato grandi differenze tra il sistema sanitario italiano e quello francese: partono entrambi da un livello di eccellenza e solo ora iniziano a essere un po’ asfissiati dal taglio delle risorse. Il nostro Nord-Est in questo contesto? Ricordando che sono stato tanto tempo fuori, ho però avuto tanti riscontri positivi da persone che, lavorando come medici in Veneto o in Trentino, hanno sempre avuto ottime possibilità di svolgere il loro compito. È ovvio che anche qui si può ancora lavorare per migliorare, partendo magari da centri di eccellenza oggettivi come possono essere Negrar o, in particolare per le malattie infettive, l’Università di Verona”.

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  • Cosa ci dice, infine, relativamente ai tanti ottimi e innovativi risultati che continua a raggiungere la ricerca italiana in campo medico?

“Che sono risultati molto migliori di quanto sarebbe lecito aspettarsi guardando ai soli mezzi messi a disposizione dei ricercatori. A differenza di realtà come quelle scandinave, la Germania o anche lo stesso Regno Unito, quello della carenza di fondi e finanziamenti resta qui un problema, rendendo la ricerca una lotta in cui sforzarsi nonostante i mezzi limitati. Noi riusciamo a mettere in campo tanti buoni cervelli, ma spesso è solo grazie alla passione che queste persone mettono nel loro lavoro, accettando condizioni che in altri ambiti spesso sono ritenute inaccettabili”.

Alberto Minazzi

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