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Il moco è presidio Slow food

Il moco è presidio Slow food
moco @Fondazione Slow Food per la Biodiversità Onlus

Il legume delle valli della Bormida inserito nella lista per rilanciarne il recupero e salvarlo dall’estinzione

In un mondo sempre più omologato alla globalizzazione anche dal punto di vista alimentare, tra i sapori di una volta che rischiano di essere irrimediabilmente perduti c’è anche il moco delle valli della Bormida.
Le coltivazioni del piccolissimo legume tipico della zona del Savonese tra Alpi e Appennini, nei terreni ricchi di tufo, risalirebbero addirittura all’Età del bronzo, con le prime testimonianze scritte certe conservate nell’Archivio di Stato della Repubblica di Genova che ne testimoniano la coltivazione almeno dal 1700.

Il rilancio del moco

Questa cicerchia dalla forma irregolare ha rischiato veramente di sparire, in un recente passato; ma dal 2012 una trentina di amici ha deciso di contrastare il destino che avrebbe portato alla scomparsa del moco, partendo da una decina di semi a cui è stato dedicata una coltivazione specifica su una superficie di qualche metro quadrato. Un processo che ha permesso, lo scorso anno, di produrre circa un quintale di legumi.

Intanto, nel 2018, il moco, entrato nel 2016 nell’Arca del Gusto, è stato inserito nell’elenco dei Prodotti agroalimentari tradizionali della Liguria. E, adesso, può puntare a un ulteriore sviluppo grazie all’inclusione, attraverso l’adesione di 4 produttori (tra i 651 presidi che la Fondazione Slow food per la biodiversità onlus ha riconosciuto in 79 Paesi del mondo) impegnantisi per salvarlo dall’estinzione, tramandando tecniche di produzione e mestieri correlati.

La pianta di moco

Bastano poco più delle dita di una mano per elencare i principali comuni delle valli dei tre corsi d’acqua che confluiscono nella Bormida dove si coltiva il moco: Cairo Montenotte, Cengio (dove gli abitanti della frazione Rocchetta in passato erano soprannominati proprio “mangia mochi”), Millesimo, Dego, Murialdo, Calizzano e Cosseria. La pianta del moco, ricondotta dopo vari studi alla famiglia della cicerchia, è estremamente resistente ai parassiti e alle basse temperature ed è in grado di crescere anche su terreni poveri e in condizioni estreme di scarsità d’acqua, anche se richiede cura e raccolta manuale. Seminato tradizionalmente a mano il 10 o l’11 aprile, impiega 2 mesi per la fioritura, con fiori bianchi con screziature azzurre rossastre.

Dal campo alla cucina

Tra fine luglio e inizio agosto, con una falciatura nelle prime ore del mattino, prima del sorgere del sole per evitarne l’apertura, avviene quindi la raccolta dei baccelli, che contengono da 1 a 3 semi da 4 a 6 millimetri, di colore bianco o bruno marezzato. Lasciati appesi in covoni ad asciugare per qualche giorno, i baccelli vengono sgranati abitualmente la prima domenica dopo ferragosto, festa del moco, rigorosamente a mano, anche perché non esistono setacci adatti.

moco
raccolta del moco @Fondazione Slow Food per la Biodiversità Onlus

I semi che si conservano interi vengono così confezionati in sacchettini, mentre quelli più piccoli, che tendono a spezzarsi, vengono macinati a pietra per ottenere una farina poi impiegata per preparare soprattutto la tipica farinata cotta in forno a legna o la panissa fritta e le piante utilizzate come fertilizzante.
I semi intatti, invece, sono ideali per zuppe, minestre e insalate, dopo un ammollo di almeno 24 ore. Di sapore più delicato rispetto alle altre cicerchie, il moco garantisce un importante apporto di proteine, fibre, amido, vitamine B, calcio e fosforo. Non a caso, specie negli anni di carestia, questo legume è stato a lungo l’alimento tradizionale per i contadini della zona.

Alberto Minazzi

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Tag:  agricoltura