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Il buco dell'ozono si sta chiudendo. Grazie all’uomo

Il buco dell'ozono si sta chiudendo. Grazie all’uomo

Uno studio del Mit attribuisce l’atteso rimarginamento allo stop all’uso dei Cfc. Previsto entro il 2035 il primo anno in cui lo strato sull’Antartide rimarrà completamente intatto

Sono passati esattamente 40 anni dalla preoccupante scoperta degli scienziati di un “buco” nello strato di ozono sopra l’Antartide che protegge la Terra dalle radiazioni solari ultraviolette.
Una condizione che portò in appena 2 anni i Governi del pianeta a sottoscrivere, nel 1987, il Protocollo di Montreal per arrivare a eliminare gradualmente la produzione di clorofluorocarburi (Cfc) e altre sostanze dannose per questa barriera naturale. Una decisione di cui, finalmente, si possono vedere i risultati. Perché uno studio del Massachusetts Institute of Technology (Mit) appena pubblicato su Nature ha certificato, con una certezza statistica del 95%, che un rimarginamento dello strato c’è stato ed è dovuto soprattutto al cambiamento di rotta nell’azione dell’uomo. Una tendenza che, aggiungono i ricercatori, potrebbe portare entro un decennio al primo anno in cui non sarà più registrato un impoverimento dell’ozono sul Polo Sud, per poi arrivare a una chiusura definitiva del buco.

buco dell'ozono

I Cfc e il buco dell’ozono

I fattori che contribuiscono a produrre il buco nell’ozono, che può produrre nell’uomo effetti negativi sulla salute, a partire dal cancro della pelle, sono molteplici e vi rientrano anche condizioni naturali come la variabilità meteorologica annuale (dovuta a El Nino, La Nina e al vortice polare) e l’aumento delle emissioni di gas serra nella stratosfera. Tra questi fattori ci sono anche i Cfc, individuati nel 1986 come causa dell’alterazione della fascia collocata nella stratosfera terrestre dopo le spedizioni in cui furono raccolte prove in tal senso in Antartide. I Cfc, sostanze chimiche utilizzate allora principalmente per la refrigerazione dei frigoriferi, negli impianti di aria condizionata, per isolamento e nei propellenti per aerosol, sono infatti in grado di impoverire l’ozono. Quando raggiungono la stratosfera, in determinate condizioni stagionali, questi gas possono cioè scomporre la molecola di ozono, formata da 3 atomi di ossigeno.

La riduzione del buco dell’ozono

A guidare le missioni in Antartide fu allora Susan Salomon, oggi tra le autrici del nuovo studio del Mit. La stessa professoressa di studi ambientali e chimica, nel 2016 aveva condotto un altro studio, da cui emersero segnali chiave di ripresa dell’ozono, con un restringimento del buco anno dopo anno soprattutto a settembre, cioè all’inizio della primavera australe, in cui fu osservato la prima volta. “Ci sono state molte prove qualitative che dimostrano che il buco dell’ozono in Antartide sta migliorando”, spiega Salomon sul sito del Mit. Che poi prosegue, relativamente ai risultati del nuovo studio: “La conclusione è che, con una fiducia del 95%, si sta riprendendo. Il che è fantastico. E dimostra che possiamo effettivamente risolvere i problemi ambientali”. “Sebbene rilevare un aumento statisticamente significativo dell’ozono sia relativamente semplice – aggiunge Peidong Wang, autore principale della ricerca – attribuire questi cambiamenti a specifici fattori forzanti è più difficile”.

Il peso della riduzione delle sostanze che danneggiano l’ozono

Il nuovo studio è stato dunque il primo a dimostrare con un approccio quantitativo, dopo le precedenti osservazioni qualitative, che la ripresa dell’ozono è dovuta principalmente alla riduzione dell’emissione attraverso le attività umane di sostanze che lo impoveriscono. In tal senso, è stato applicato alla ricerca il metodo “fingerprinting”, ovvero “dell’impronta digitale”, ideato dal Nobel per la Fisica Klaus Hasselmann e utilizzato principalmente dalla comunità del cambiamento climatico. In tal modo, utilizzando inizialmente simulazioni dell’atmosfera terrestre e confrontandole, è stato individuato uno schema del recupero dell’ozono legato specificamente al declino delle sostanze che lo riducono. Questa impronta è stata cercata quindi nelle osservazioni satellitari effettive del buco dal 2005, giungendo, dopo 15 anni di registrazioni, al risultato ora pubblicato, pressoché certo, che lega il miglioramento della situazione al taglio dei gas dannosi.

Alberto Minazzi

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