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A SCUOLA DI CRIMINOLOGIA

A SCUOLA DI CRIMINOLOGIA


A Padova stanno riscuotendo grande successo i corsi universitari della criminologa Roberta Bruzzone, presidente dell’Accademia Internazionale di Scienze Forensi, che si divide tra docenza, Tv e casi irrisolti
Roberta Bruzzone a volte si addormenta sul pc mentre studia possibili soluzioni ad uno dei suoi crimini. Poi alle 4 del mattino si sveglia e si trascina verso il letto per riposare qualche ora. I suoi casi non sono semplici fascicoli ma storie a cui si appassiona come se si trattasse di vicende private. Criminologa di origini liguri, presidente dell’Accademia Internazionale di Scienze Forensi, ai suoi corsi vede iscriversi non solo avvocati ma anche poliziotti e investigatori e pure la magistratura ora la segue con attenzione. A Padova, da poco più di un anno, è stata aperta una delle sei sedi dell’Accademia. E a conferma del fatto che il tema della criminologia e dei suoi metodi scientifici sono un’attrazione per molti lo è il numero degli iscritti alla mailing list patavina: già 15mila persone. Una passione che non è nata per caso. Ma è un percorso iniziato all’età di soli sei anni e quindi seguito passo dopo passo sui banchi di scuola e dell’università. Il fatto di essere donna, una bella donna, non è mai stato un limite per lei. Anzi, un motivo in più per dimostrare di potere anche andare oltre. La strage di Erba, in cui è consulente della difesa di Rosa e Olindo, è un caso giudiziario per lei ancora aperto; la morte misteriosa dei due fidanzatini di Policoro, avvenuta nel 1988 a Matera, non è stata archiviata proprio grazie ad una sua consulenza che ha convinto la Procura a riaprire il caso dopo 20 anni; il pool investigativo composto da poliziotti e carabinieri che dava la caccia a Unabomber nel Nordest non le diede mai retta e per lei sono evidenti gli errori commessi in quell’inchiesta. Senza peli sulla lingua, conduce anche una trasmissione televisiva ma non partecipa a quelle in cui si esalta l’orrido e il sangue a scapito dei fatti e delle prove. «Non è vero che la criminologia sia un settore prettamente maschile, soprattutto all’università. Ma per arrivare a questo livello di conoscenza e di perfezionamento serve combattere con i pregiudizi e lo si riesce a fare solo con il conforto dei fatti e dei risultati. Il mio lavoro lo amo e lo volevo fare sin da bambina. A sei anni mi interessavo già di misteri, andavo a caccia dei fantasmi nelle case disabitate, avevo una propensione per l’investigazione, diciamo così. Una passione che ho coltivato negli anni studiando molto e bruciando le tappe. Una specie di sacro fuoco che mi ha spinto fino a questo punto e che continua a darmi lo stimolo per andare avanti, sempre alla ricerca della verità assoluta. La mia missione e quella dell’associazione che presiedo è quella di condividere le competenze accumulate e di cui disponiamo grazie a dei gruppi di lavoro di livello internazionale e di metterle a disposizione della magistratura ma anche delle forze dell’ordine. Padova non poteva mancare come sede periferica della nostra associazione. Nel Nordest esistono competenze e qualità e attorno a questo tema c’è un interesse sempre crescente, soprattutto da parte dei giovani avvocati e di chi ha capito che la metodologia scientifica e soprattutto l’aggiornamento spesso possono risolvere in aula cause difficili».
Il Veneto, più di altre regioni, in questi ultimi mesi si è macchiato di numerosi casi di omicidio e stragi maturate in ambito familiare. Colpa della società o di che cosa? «La precarietà esistenziale, la povertà e il disagio collettivo hanno un ruolo importante nello spingere a compiere certe azioni criminali. Spesso però si nascondono situazioni di natura ansiogena latenti, anche tra i giovanissimi che alimentano dentro i soggetti più sensibili ed esposti a degenerare in violenza».
Secondo lei circolano troppe armi nelle case italiane? «Maggiori controlli servirebbero a prevenire qualche caso ma se andate a rivedere un po’ la casistica l’arma più utilizzata nei delitti familiari sono i coltelli da cucina. L’arma più pericolosa, poi, è l’odio, quell’odio che viene coltivato dentro e che poi esce in un attimo e si traduce in aggressione e violenza e spesso in omicidio».
Ogni caso di cui si occupa resta per lei un semplice fascicolo oppure la coinvolge? «Ogni storia diventa un pezzo di me, della mia storia personale e professionale. Io riesco a lavorare bene solo quando lo “sento” il caso, lo riesco a vivere. Per questo mi capita di addormentarmi la sera davanti al computer e poi svegliarmi nel cuore della notte e riuscire, a fatica, a trascinarmi fino al letto».
Delitti e televisione, sangue e mass media, lei una trasmissione televisiva la conduce e spesso interviene come ospite. Esiste un pericolo emulazione per chi dà troppo spazio sul piccolo schermo a casi di omicidio? «In alcuni programmi esiste una morbosità eccessiva, una ricerca proprio del macabro unicamente ad uso e consumo del telespettatore. Ma a questo tipo di trasmissioni, per esempio, io rifiuto anche di partecipare. Dietro c’è solo un interesse legato agli ascolti e non alla verità. Non si va in televisione per fare paura ma per spiegare fin dove lo si può fare. Per quanto riguarda l’emulazione per alcuni soggetti aver visto alla televisione programmi ma anche solo telegiornali che parlano di un omicidio e di come è stato commesso possono avere un ruolo determinante nel far scattare qualcosa. Ma un soggetto, comunque, non uccide così dal nulla: l’effetto mediatico può diventare una molla che sblocca l’energia negativa accumulata dentro di sé ma non essere motivo di ispirazione alla violenza. Non si uccide mai per caso. E qui sarebbe importante tenere conto del disagio collettivo, delle debolezze delle persone e fare un’informazione più corretta».
Parliamo di giustizia. L’Italia è un paese severo nel giudicare chi uccide o commetti atti di violenza contro il prossimo? «Siamo un Paese severo per condannare ma meno affidabile nel far rispettare fino in fondo lo sconto della pena per chi viene giudicato colpevole. Manca una vera tutela della vittima. Abbiamo una classe di avvocatura in gamba, soprattutto alcuni vecchie volpi dell’aula e dei giovani avvocati pronti a tutto. Anche la magistratura è capace e ci sono giudici molto coraggiosi, ma dopo il processo passato in giudicato iniziano i problemi».
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Quale il caso di cui si è occupata che le appartiene di più? « Sono due ed entrambi recenti. Il primo è la strage di Erba. Ero consulente della difesa di Olindo e Rosa e sono ancora convinta, sulle carte a disposizione e sugli elementi che con il mio staff sono stati raccolti che i due coniugi sono estranei alla vicenda. La partita non è chiusa del tutto. E noi lavoreremo ancora per dimostrare la loro innocenza. Poi il caso della morte misteriosa dei fidanzatini di Policoro avvenuta nel 1988 a Matera: ci sto lavorando adesso e ho ottenuto di recente un grande risultato, cioè il respingimento dell’archiviazione».
Il Nordest per anni ha vissuto il terrore Unabomber. Lei che idea si è fatta di questa vicenda? «Secondo me ci sono state delle leggerezze investigative, come quella che riguarda la manomissione del lamierino. Probabilmente sarebbe servito un approccio al caso più metodico, mentre si è vista solo molta confusione compresa la fuga di notizie che non ha sicuramente giovato all’inchiesta. Il mio staff propose al Pool anti Unabomber, composto da polizia e carabinieri, una tecnica messa a punto da un esperto mondiale sulla rilevazione delle tracce ma non ci risposero neppure. E Unabomber ha vinto, ha ottenuto il suo scopo di riflesso mediatico che cercava senza mai essere preso. E comunque mancavano prove certe contro Elvo Zornitta: non sarebbe mai stato condannato con i pochi indizi che c’erano».
DI RAFFAELE ROSA
 
 
 

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