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Oceani: un “biglietto da visita” della Terra in continuo cambiamento

Oceani: un “biglietto da visita” della Terra in continuo cambiamento

Dalle teorie su un passato “verde”, a un nuovo modello per monitorare lo scioglimento dei ghiacciai (e il conseguente innalzamento del livello delle acque): la scienza si concentra sulle evoluzioni delle grandi masse d’acqua che caratterizzano il nostro pianeta

Se la Terra è chiamata anche il “pianeta azzurro” ciò dipende, oltre che dal modo in cui l’atmosfera sparge la luce solare, soprattutto dal fatto che la maggior parte (circa il 71%) della sua superficie è ricoperta da oceani. Eppure, suggerisce uno studio internazionale pubblicato sulla rivista Nature Ecology & Evolution, c’è stato un periodo, risalente a miliardi di anni fa, in cui proprio le grandi distese d’acqua apparivano verdi. Anche tornando al presente, però, l’ecosistema oceanico è solo apparentemente statico, risultando invece in continua evoluzione. E questo avviene per esempio sul fondale, come evidenziano le nuove faglie il cui ritrovamento è stato annunciato lo scorso anno nel Pacifico. Ma, in maniera ancora più evidente, lo si può notare in superficie, visto che, in prospettiva, si dovrà sempre più fare i conti con l’innalzamento del livello dei mari. Un fenomeno strettamente connesso allo scioglimento dei ghiacciai, riguardo al quale arrivano nuovi sviluppi sulle possibilità di monitoraggio sfruttando le opportunità messe a disposizione dall’intelligenza artificiale.

Quando gli oceani erano verdi

A presentare il fondamento scientifico alla base della teoria di un oceano preistorico verde è stato un team di ricercatori dell’Università giapponese di Nagoya. Il periodo a cui si riferisce lo studio risale a circa 2,4 miliardi di anni fa, nel pieno del periodo in cui le primitive forme di vita anaerobica che popolavano il nostro pianeta si estinsero in massa per l’accumulo di ossigeno in atmosfera.

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@Nadia Do

Uno stravolgimento radicale della composizione chimica delle principali componenti ambientali terrestri, ribattezzato dagli studiosi “Grande evento ossidativo”, di cui sono ritenuti i principali responsabili i cianobatteri dell’Archeano, ovvero alcuni dei primi organismi unicellulari che popolarono gli oceani. È stato proprio analizzando le caratteristiche fotosintetiche di queste primitive forme di vita che gli studiosi sono arrivati alle loro conclusioni. In particolare è stata presa in considerazione una differenza rispetto alle piante attuali, che pure utilizzano proprio come i cianobatteri preistorici i pigmenti della clorofilla: lo sviluppo di pigmenti accessori in grado di assorbire la luce solare a lunghezze d’onda diverse. Un fenomeno per il quale i ricercatori hanno suggerito, sulla base dell’applicazione di una serie di tecniche e modelli numerici, l’ipotesi che si sia trattato di una risposta adattativa ai cambiamenti ambientali e, in particolare, alla colorazione verdognola dell’oceano dovuta all’ossidazione del ferro, presente in quantità rilevanti nelle acque dell’epoca.

L’intelligenza artificiale al servizio dei ghiacciai

È stato invece un ateneo italiano, l’Università Ca’ Foscari di Venezia, a coordinare il team internazionale che ha appena pubblicato, sulla rivista Geoscientific Model Development, il secondo studio che interessa anche gli oceani, in maniera molto meno indiretta di quanto si potrebbe pensare. Il lavoro ha infatti permesso di sviluppare un primo modello globale basato su intelligenza artificiale per calcolare la distribuzione di profondità del ghiaccio di tutti i ghiacciai del mondo. Che, con l’attuale aumento della fusione dei depositi naturali di acqua surgelata, contribuiscono oggi per circa il 25%-30% all’innalzamento globale del livello dei mari.

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Il modello illustrato dagli scienziati si candida dunque a diventare un punto di riferimento per chi studia gli scenari futuri legati a questo fenomeno. Si sottolinea infatti come la conoscenza accurata dei volumi dei ghiacciai della Terra sia essenziale per prevedere l’innalzamento futuro del livello dei mari, ma anche per gestire le risorse idriche e valutare gli impatti sulle società causati dal loro scioglimento. E, nonostante siano state raccolte nel corso degli anni oltre 4 milioni di misurazioni dirette dello spessore dei diversi ghiacciai terrestri, la stima del volume assoluto delle masse ha fin qui costituito una enorme e irrisolta sfida scientifica, visto che è stato possibile effettuare tali misurazioni appena sull’1% dei ghiacciai esistenti. Proprio partendo da questi dati, integrati con le potenzialità di algoritmi basati sul machine learning, gli scienziati hanno dunque sviluppato un modello in grado di dare le risposte cercate. “Prevediamo di rilasciare due dataset per un totale di mezzo milione di mappe di profondità entro la fine del 2025” ha annunciato il coordinatore, Niccolò Maffezzoli.

Cosa succede in fondo all’oceano?

Proprio per la loro distribuzione su gran parte della superficie terrestre, gli oceani risultano interessanti dal punto di vista scientifico non solo per le tematiche legate al ciclo dell’acqua e alle forme di vita che popolano le grandi masse idriche, ma anche per quel che succede nella terraferma sottostante. Al riguardo, nel 2024 uno studio pubblicato dai geologi dell’Università canadese di Toronto sulla rivista Geophysical Research Letters ha presentato una serie di risultati che hanno consentito di aggiungere importanti informazioni alla teoria della “tettonica delle placche”, attraverso cui vengono descritti i movimenti dei grandi blocchi di roccia che costituiscono lo strato più esterno del nostro pianeta. Nello specifico, è stata individuata nel fondale dell’Oceano Pacifico una serie di deformazioni e fratturazioni significative, in grado di determinare attività sismiche e vulcaniche, in corrispondenza di alcuni altopiani sottomarini, ben distanti dalle fosse oceaniche. Si tratta di una scoperta che ha cambiato le prospettive, visto che secondo le teorie condivise e seguite fino a quel momento si riteneva che le faglie determinate dagli spostamenti reciproci delle placche non si verificassero in queste specifiche aree sottomarine.

Alberto Minazzi

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