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Le radiazioni che spezzano il dna e provocano i tumori

Le radiazioni che spezzano il dna e provocano i tumori
Un’immagine relativa alle simulazioni

Il risultato, ottenuto con le simulazioni al computer nello studio dell’Università di Trento, apre però a possibili cure per il cancro

Gli effetti sul nostro dna provocati dalle radiazioni ionizzanti sono tali che, potenzialmente, possono arrivare fino a provocare tumori. E le occasioni in cui, anche nella quotidianità, siamo sottoposti a questo tipo di radiazioni sono molte più di quanto si potrebbe pensare.
Non succede, per esempio, solo quando effettuiamo una radiografia ai raggi X, ma anche se viaggiamo a 10 mila metri a bordo di un aereo di linea intercontinentale o, molto più banalmente, quando, prendendo il sole, il nostro corpo è raggiunto dai raggi UV.

Tutte situazioni in cui le nostre molecole riportano dei danni. E quando questo avviene in modo più grave, arrivando al punto di danneggiare il dna, romperne la struttura o modificarla, nel peggiore dei casi nel nostro organismo può anche svilupparsi una forma di cancro.
Lo studio del nesso tra l’impatto della radiazione sul dna e il tempo in cui la molecola danneggiata si spezza in modo irreversibile è stato quindi l’oggetto del lavoro di un gruppo di ricercatori del Dipartimento di Fisica dell’Università di Trento, i cui risultati aprono a nuove prospettive in ambito medico, biologico e radioterapico nella cura dei tumori.

I risultati delle simulazioni al computer

Lo studio è stato pubblicato sulla rivista scientifica “Biophysical Journal” e l’indagine sulla rottura del dna colpito da radiazioni ionizzanti è stata possibile grazie al modello in cui i ricercatori hanno ricostruito al computer una sequenza di dna a doppio filamento. Una sorta di “videogame” in cui il gruppo di lavoro si è concentrato sull’osservazione del comportamento della cellula una volta colpita dalle radiazioni, calcolando in particolare il tempo medio tra l’irraggiamento e la rottura del filamento.

I ricercatori al lavoro – © UniTrento ph. Cattani Faggion

Si è giunti così a scoprire che l’interruzione della continuità strutturale e chimica dello scheletro del dna nei due filamenti complementari, uno degli effetti più pericolosi, in quanto in grado di scatenare conseguenze dannose a livello cellulare, non avviene immediatamente. E gli studiosi sono riusciti a ricostruire la legge del tempo medio di rottura con la distanza tra le zone del dna danneggiate. In altri termini, maggiore è la distanza tra i “tagli”, più a lungo la struttura resta unita, con una crescita esponenziale del tempo che porta la catena a separarsi.

L’importanza del tempo per la riparazione della cellula

Questa informazione – spiega Raffaello Potestio, coordinatore del gruppo formato anche da Manuel Micheloni, Lorenzo Petrolli e Gianluca Lattanzi – è cruciale, perché verosimilmente impatta sull’efficacia dei processi di riparo del dna”. Più impiega, insomma, la struttura del dna a dividersi, maggior tempo ha a disposizione la cellula per riparare il danno. Quando riceve segnali di lesione, il complesso sistema enzimatico di controllo e manutenzione del dna, infatti, si innesca, anche se non immediatamente, con possibili ripercussioni sul funzionamento della cellula stessa.

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Raffaello Potestio – © UniTrento ph. Cattani Faggion

Le conseguenze, poi, sono diverse, sottolineano i ricercatori, se le mutazioni sono sinonime, dando luogo alla sintesi della stessa proteina, o se si verificano modifiche sostanziali nella sequenza di dna o errori nella procedura di riparo. Nel primo caso, la modifica può essere anche non impattante. Nel secondo, la cellula “si suicida”, rendendosi conto dell’irreparabilità dei danni, o, peggio, ricostruisce l’integrità della catena di dna, ma accumulando le mutazioni o le alterazioni della sequenza. In questo caso, il successivo comportamento disfunzionale può a sua volta produrre modifiche genetiche, mutazioni cromosomiche fino all’insorgenza di un tumore.

I prossimi obiettivi e le prospettive

Per arrivare agli sviluppi medici, sia terapeutici che preventivi, servirà ora riprodurre le tecniche, utilizzate nella simulazione numerica al computer, all’interno di una sperimentazione pratica di laboratorio.
“Il duplice e complementare scopo a valle di questi studi – riprende Potestio – è da un lato comprendere i meccanismi che portano ai danni cellulari per prevenirli o limitarli e dall’altro trovare il modo migliore per creare il maggior danno possibile. Questo è importante, ad esempio, nell’ambito della protonterapia, che sfrutta radiazioni ionizzanti, nello specifico protoni, per colpire localmente cellule già tumorali e ucciderle”.

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Da sx: Manuel Michelon, Gianluca Lattanzi, Raffaello Potestio, Lorenzo Petrolli – © UniTrento ph. Cattani Faggion

“Il contesto della radioterapia – conclude lo studioso – porta con sé tutta una serie di questioni più profonde che riguardano, ad esempio, la precisa localizzazione della radiazione depositata nei tessuti tumorali, in modo da evitare che i raggi colpiscano cellule sane che a loro volta potrebbero “impazzire”. Meglio capiremo ciò che succede a seguito dell’irraggiamento e della rottura del DNA, tante più frecce avremo al nostro arco per poter sviluppare altre tecniche di intervento e mitigarne gli effetti collaterali”.

Alberto Minazzi

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Tag:  tumori