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LA VERSIONE DI SERGIO

LA VERSIONE DI SERGIO

È stato la voce del basket jugoslavo negli anni ‘70-‘80. Competente, graffiante, inimitabile. Sergio Tavcar ci spiega le ragioni dell’epoca d’oro della pallacanestro.

Ma diciamolo dai! Questa è una partitaccia ignobile, non so cosa sto a fare io qu a commentarla e soprattutto voi a casa a guardarla!» Provate a cercare un telecronista che si azzardi a dire una cosa del genere ai nostri tempi. Fate a meno di cercare e andate direttamente a Trieste, prendete lo storico tram e risalite fino ad Opicina, sull’antica strada per Vienna. Lì troverete Sergio Tavcar, la voce di culto della pallacanestro anni ‘80. Delle telecronache oltre la cortina di ferro. Dei canestri e delle retine di lana grossa in diretta da Zara. Delle immagini sgranate e del perenne effetto neve, che non riusciva però a sedare la spasmodica curiosità per un basket diverso, originale, balcanico, che per la prima volta oltrepassava l’Adriatico. Di recente è tornato a dire la sua, come un tempo. Ha aperto un blog, dimostrando che l’età non c’entra quando uno sa servirsi delle novità e non farsene servire. Sottotraccia, quasi come accadde trent’anni fa via etere, ha cominciato ad attirare una congrega di accoliti cestofili che ogni settimana attende con apprensione il suo intervento, per commentare, dibattere e soprattutto ragionare di basket. Una boccata d’aria pura, insomma.
EFFETTO VINTAGE. Tra le conseguenze del clamoroso ritorno di Peterson sulla panchina dell’Olimpia Milano, c’è stato anche quello di rinfocolare la nostalgia “vintage” per quei “favolosi anni ‘80”, in cui il basket sembrava a un passo dall’aver avvicinato il calcio, gli stranieri erano spesso dei fuoriclasse, c’erano le partite del sabato pomeriggio visibili a tutti e a parlare di questo sport c’erano giornalisti senza peli sulla lingua e tanto pelo sullo stomaco.
Non si corre un po’ il rischio di mitizzare quell’epoca? «Certo più passa il tempo più tendiamo a idealizzare, a ricordarci solo le cose migliori e a tralasciarne altre. Però, detto questo… Maledizione! Eh sì che erano altri anni! C’era una mentalità del tutto diversa, un’etica del lavoro diversa».
Cosa ha reso davvero inimitabili quegli anni? «Il grande salto compiuto dalla pallacanestro. Un salto che in realtà è avvenuto nella prima metà degli anni ’70. Lì è davvero cambiato tutto e in tutte le discipline, specie con le Olimpiadi di Montreal e Monaco. L’epoca iniziata negli anni ’70 e durata fino all’inizio dei ’90 del primo Michael Jordan (quello che per intenderci non aveva ancora iniziato a girare spot pubblicitari) fu davvero l’età dell’oro del basket. Questo perché a mio parere avvenne un perfetto connubio tra modernità e vecchi valori».
JUGOREYER. Quell’epoca la Reyer e i suoi appassionati la vissero in prima linea e spesso per merito di giocatori jugoslavi che a Venezia trovarono un habitat ideale per esprimere il proprio talento. Giocatori che Sergio Tavcar conosce molto bene e ha recentemente descritto nel suo (imperdibile) libro “La Jugoslavia, il basket e un telecronista”.
Cominciamo da Dalipagic, naturalmente. «Il suo primo ricordo mi è chiarissimo davanti agli occhi. Successe esattamente quarant’anni fa. Dovevo seguire Olimpia Lubljana – Partizan Belgrado e si attendeva l’esordio di questo giovane ventunenne di Mostar di cui tutti facevano un gran parlare. In panchina c’era Zeravica, che fece una di quelle scelte incomprensibili, tipiche degli allenatori balcanici: nel primo tempo Dalipagic non venne nemmeno messo in campo. Non capivamo. Poi all’intervallo Dalipagic non rientrò negli spogliatoi e rimase in campo con il viceallenatore per tirare. E lì mi caddero gli occhiali. Tiri da fermo, tiri in sospensione, terzi tempi con elevazione paurosa. Nel secondo tempo entrò in campo e decise la partita. Aveva intrapreso questo sport solo due anni prima».
Cosa sarebbe in grado di fare nel basket di oggi? «Dalipagic adesso? Con i metodi di adesso? Non scherziamo… Suvvia, sarebbe imbarazzante. Per gli altri, s’intende. Li ridicolizzerebbe tutti. Lasciamo stare per favore…»
Parliamo di Radovanovic. Non fu mai tenero con lui, per via dei tiri liberi…
«Alt! La grandezza di Radovanovic sta nell’essere migliorato durante tutto l’arco della sua carriera. Anche quando da giocatore è passato dietro la scrivania. Non sono certo un caso i ripetuti premi ricevuti in questi anni come miglior dirigente della Lega Adriatica. E poi, tanto per fare un nome, Teodosic (recentemente premiato giocatore dell’anno 2010 dalla FIBA, ndr) è una creatura sua».
Prima di loro arrivarono Djuric e Rajkovic. «Sono stati entrambi due grandi giocatori, ma di quella generazione che ha preceduto il boom tecnico e fisico degli anni ’70. Per questo è difficile metterli a confronto con chi è venuto dopo. Djuric è stato un giocatore moderno per la sua epoca: pivot, non molto alto, ma mobile. Rajkovic, invece, era il tipico centro di stazza “pre-Cosic”, tutto blocchi e rimbalzi».
RITROVARE L’ESSENZA. In una recente (e splendida) intervista rilasciata a SuperBasket, Valerio Bianchini, altro grande dell’epoca d’oro dei canestri, ricorda come i giocatori di quei tempi “erano figli in qualche modo del ’68, delle assemblee studentesche, delle discussioni sociali”. La difficoltà nel rapportasi con i giocatori di adesso, diventati più degli esecutori, che degli interpreti, passa anche attraverso questi aspetti. Tra i quali, l’incapacità diffusa di cogliere l’essenza del gioco. «C’è una monomania dilagante. Come uno che osserva l’albero, ma non vede la foresta. Ormai sembra che il basket sia diventata tutta una questione tecnico-tattica. Il basket non è eseguire schemi, ma scegliere tra opzioni!»
Valerio Bianchini sostiene che i principi sono rimasti gli stessi. Sono i giocatori ad essere cambiati. «Ed è quello che sostengo io. Mi viene da ridere quando sento dire che oggi si gioca un basket più fisico. Tanto per fare un esempio, mi sono andato a rivedere la semifinale degli Europei del ’91, tra Italia e Spagna. Il gioco era tremendamente fisico. Solo che in campo c’erano giocatori come Brunamonti e Gentile che quando bisognava la mettevano dentro. Quella di adesso è solo una grande mistificazione per non dire che il gioco è molto meno tecnico».
MISTERO GIOVANE. Sergio Tavcar non è stato solo telecronista, ma anche allenatore. Per molti anni ha lavorato con i giovani di Opicina e dintorni, in uno dei bacini cestistici più floridi del panorama nazionale. La formazione e i settori giovanili sono tuttora per lui il vero tema portante. «Ho smesso di allenare nei primi anni ’90. L’ultima generazione di ragazzi che sono riuscito a crescere è quella del ‘69. Poi non c’è più stato verso mettermi in relazione con loro. Non c’era modo di stimolarli. Venivano in palestra, senza sapere nemmeno perché».
E se dovesse fare due cose per migliorare i nostri vivai? Per prima cosa il responsabile del settore giovanili sarebbe l’unico nella società a non avere prezzo. Il centro di tutto. Un istruttore preparato a 360 gradi: dovrebbe sapere di pedagogia, di psicologia, di scienza dell’età evolutiva. Dovrebbe essere uno scienziato vero e proprio, di gran lunga la persona più preparata del club».
Cos’è che in fondo la spinge ancora ad amare la pallacanestro? «La speranza di rivedere lo sport che ho conosciuto e che non vedo più da tempo. Ma forse la cosa che più mi intriga è capire se esistono delle leve per arrivare ai ragazzi di oggi. Questo tarlo continua a tormentarmi».
DI ALESSANDRO TOMASUTTI

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