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VOGLIO ANDARE A VIVERE IN CAMPAGNA

VOGLIO ANDARE A VIVERE IN CAMPAGNA


Lasciare la città per aprire un’azienda vinicola: tre storie singolari a Venezia, Padova e Treviso
La campagna, nel suo significato ambientale, è una superficie di terreno aperto, lontano dai centri urbani o da qualche centro abitato, generalmente costituito da qualche piccola comunità abitata, da terre estese libere che vengono coltivate o lasciate incolte. Campagna fino a qualche decennio fa era il luogo dei vecchi contadini, il luogo da cui fuggire per andare a far fortuna in città. Oggi, però, si sta assistendo a un tendenza inversa.
Accade per esempio che tra le isole della laguna un uomo decida di cambiare radicalmente il proprio stile di vita, scegliendo la strada del contatto con la natura, lontano dalla sua incredibile vita “precedente”: 10 anni fa Michel Thoulouze, originario della Francia del sud, una carriera di giornalista alle spalle, creatore di riviste e di canali televisivi, presidente e amministratore delegato di Tele +, decide di acquistare una casa a Sant’Erasmo.
«Ho fatto questa scelta per amore della Laguna, in un periodo in cui nessuno faceva niente per lei ed era poco frequentata anche dagli itinerari turistici – racconta – ho deciso di acquistare una casa, colpito dalla sua vista incredibile, ed un terreno. Poco dopo i miei vicini mi hanno confessato che si trattava della terra migliore di tutta Sant’Erasmo e osservando una mappa del 1700 ho così scoperto che era, effettivamente, la zona in cui si coltivava il cosiddetto “vitigno del nobiluomo”».
Da quel momento in poi decide che quella sarà la sua strada: riportare il buon vino a Venezia. «Abbiamo raccolto una serie di informazioni attraverso mappe e abbiamo scelto di rimettere in funzione il vecchio sistema di drenaggio: i canali che scorrono lungo i terreni accumulano acqua piovana che fluisce poi in laguna nel momento di bassa marea sfruttando il sistema delle “chiuse”. Il terreno è stato poi lavorato per due anni con una rotazione di piante per prepararlo ad accogliere perfettamente le viti, senza mai utilizzare l’aratro, secondo il metodo denominato “duro su duro”. É stata poi piantata una serie di tralci cosiddetti “a piede franco”, priva dell’innesto della vite americana, in modo da poter percepire il vero gusto dell’uva e del terreno che la ospita nella produzione vinicola». In questo modo sono nati l’Azienda e il suo incredibile vino bianco, denominato “Orto”, la cui produzione si aggira oggi intorno alle 15000 bottiglie. Cosa significa essere il solo produttore di vino a Venezia? «La mia soddisfazione non è questa ma semplicemente fare del buon vino, che si sposi coi sapori della terra in cui nasce».
Qualche chilometro più in là, una simile filosofia di vita, basata sul rispetto della natura del territorio e della tradizione, è stata applicata da Ernesto Cattel, precedentemente attivo nell’ambito turistico nel litorale veneziano, che ha cambiato vita passando a dedicarsi alla sua Costadilà, azienda sorta nella zona del comune di Tarzo, il limite più estremo della produzione del prosecco dell’alta marca trevigiana.
«Costadilà è un’azienda a ciclo chiuso, un’azienda cioè dove ogni parte del processo produttivo, anche la più piccola, è gestita al suo interno ed è in grado di soddisfare ogni sua esigenza. Un’azienda che si sviluppa in relazione con l’ambiente circostante, in cui tutto è interconnesso in una complessità di relazioni che travalicano gli aspetti puramente causali, seguendo i tempi della natura, con una gestione equilibrata dei terreni: racchiudendo il tutto in una definizione si parla di “agricoltura biodinamica”».
Come nasce una simile realtà? «Costadilà è nata dalle ceneri di una realtà attiva fino agli Sessanta, sostituita poi da una Comunità Hippie. Si è trattato di vedere la terra com’era, con la sua realtà e le sue suddivisioni preesistenti e rispettarle, sfruttando quella sorta di conoscenza istintiva data dalla pura e semplice osservazione che era tipica dei vecchi contadini. Il tutto si sviluppa in 54 ettari di terreno perfettamente diversificati: le viti al sole, il pascolo nei pressi del torrente, un bosco di castagni e un pascolo abbandonato che si sta riattivando con capre e pecore». Da qui si sviluppa il concetto di “articoltura”, di cosa si tratta? «È una sorta di fusione dei due concetti di artigianato e agricoltura. In altre parole viene prodotta la materia prima, che viene poi “trasformata” per essere venduta, seguendo le sue caratteristiche e la sua stagionalità. E dal momento che la materia prima cambia di anno in anno per una serie infinita di variabili ( ad esempio clima e piovosità) anche il prodotto finito sarà sempre diverso. La difficoltà più grande sta nell’andare a spiegare tutto questo. Abbiamo scelto di creare un’area in cui potremmo offrire anche ospitalità a chi desidererà misurarsi con questo modo di vivere l’agricoltura». Un sistema apparentemente complesso che trova il suo mezzo più immediato di comunicazione nella bottiglia di vino. «Il vino è il mezzo più semplice perché è il più immediato. Siamo partiti da una produzione iniziale di 3000 bottiglie per arrivare oggi ad un numero che si aggira tra 50000 e 60000. Il nostro è un vino che definirei immediato nella sua semplicità, un vino che può essere capito più facilmente da persone non mediate da concetti accademici, un vino che viene sapientemente scelto e “provocatoriamente” accompagnato, nella sua descrizione, dalle parole di Mauro Lorenzon, storico gestore della Mascareta a Venezia che sta facendo questo viaggio con noi».
Tradizione nel cuore della laguna di Venezia, articultura nella marca trevigiana, innovazione invece introdotta da una giovane e caparbia padovana: abbracciata da altissimi cipressi, si affaccia timidamente dall’alto di una collina sulla bellissima vallata veronese di Mezzane, terra del Valpollicella per eccellenza, la tenuta Massimago che Camilla Rossi Chauvenet, 25 anni, originaria di Padova, ha voluto creare come sfida con se stessa. «Si tratta di un’azienda vitivinicola tutta al femminile, è un’idea, un progetto ambizioso carico di aspettative e determinazione. Il sogno era quello di far rivivere un paradiso sgualcito, la vera casa dei nostri profumi, dei nostri ricordi indelebili, delle nostre origini, della nostra storia.- racconta Camilla- Ho quindi deciso di trasformare la casa di campagna a cui la mia famiglia è da sempre legata in un’azienda vitivinicola».
Non deve essere stato facile per una ragazza così giovane trasformarsi, in poco tempo, in un’imprenditrice… «É stata, in realtà, una cosa molto naturale, nata dall’esigenza di avere un’attività volta direttamente al concreto. Nasco da una famiglia teorica, composta da avvocati e dentisti, ho studiato al liceo classico, ma a un certo punto ho sentito un’esigenza di concretezza, di trasformare la teoria che mi circondava in pratica – continua Camilla – ho iniziato a studiare agraria per passione, cosciente di avere una grossa possibilità. Soprattutto ho visto di fronte a me una campagna che non era sfruttata per le sue potenzialità. E in più si è unito il fattore sfida, la voglia di creare qualcosa di mio. In più i miei genitori, appoggiandomi in tutto, mi hanno insegnato a vederla come una scelta imprenditoriale, una sfida da cui trarre nuovi progetti e nuove motivazioni».
Sfida nella sfida: essere una donna in un ambiente, quello del vino, prettamente maschile. «La cosa inizialmente mi ha creato non poche difficoltà: non è stato semplice guadagnare il rispetto e la stima. Resta il fatto che essere donna nel mio mondo ha anche i suoi lati positivi e il più importante è l’istinto materno per l’azienda e i suoi prodotti, possesso misto a responsabilità e sfida, voglia di rivendicare una propria autonomia e forza».
Una produzione di 1000 bottiglie di Amarone, nel 2004, seguito da 1000 bottiglie di Amarone nel 2005, 1000 bottiglie di Esordio (il primo Valpolicella Superiore), fino ad arrivare alle attuali 20000, per la cui produzione vengono utilizzate solo le uve migliori. Una crescita incredibile affiancata da un accurato marketing e da un’attenzione per la comunicazione e per il mondo del web. «Abbiamo una serie di nuovi progetti tra cui “web for food”, conoscere il cibo attraverso delle degustazioni in streeming e “Massimago social innovation”, una serie di week end di work shop per settori diversi. L’idea è stata quella di collocare in un ambiente informale professionisti di settori diversi, dando loro delle mansioni: è stato sorprendente osservare come abbiano trovato un modo inconsueto per loro di comunicare e di dar vita a nuovi progetti».

DI CHIARA GRANDESSO
 
 

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