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Un italiano in una traversata senza precedenti in handbike

Un italiano in una traversata senza precedenti in handbike
Matteo Parsani in hanbyke al sito di Al-Ula

Missione Athar-East to West: per veicolare un messaggio, acquistare handbike,  per la ricerca scientifica. Dall’esperienza di Matteo Persani, nuovi paradigmi di esercizi per chi ha una lesione spinale

Tremila chilometri in 30 giorni attraversando l’Arabia Saudita in handbike e in trike, una bicicletta a tre ruote, in parte motorizzata, che coinvolge nel movimento anche gli arti inferiori. L’ingegnere Matteo Persani, 42enne di Scanzorosciate, in provincia di Bergamo, professore di Matematica Applicata e Scienze Computazionali al Kaust (King Abdullah University of Science and Technology) di Thuwal, in Arabia Saudita, dal 2017 convive, a causa di un incidente in moto, con una lesione spinale incompleta: “Dalle ginocchia in giù non sento nulla – spiega Parsani – e mi muovo lentamente con dei tutori in carbonio o in sedia a rotelle. Ho dolori neuropatici ma braccia robuste e, per fortuna, non mi manca l’entusiasmo”.
Dopo anni di meticoloso monitoraggio e riabilitazione, Parsani ha preso la decisione di intraprendere una traversata senza precedenti in handbike e in trike, da costa a costa, attraverso il Regno dell’Arabia Saudita, un’impresa simbolo di speranza, resilienza e determinazione.
Partito lo scorso 17 dicembre ha attraversato da est a ovest dieci città dell’Arabia passando per Dammam, Riyad, Al-Qasim (Burayda), Hail, Aiula, Red Sea Global, Medina, La Mecca, Gedda, concludendo il viaggio il 17 gennaio, al Kaust, l’università dove lavora. Il tutto dopo aver percorso in handbike una media di 150 chilometri al giorno.

Un progetto, tre obiettivi, sette ore di fatica quotidiana

Il progetto denominato “Athar – East to West (“impatto positivo”), che si inserisce nel filone della riabilitazione attraverso lo sport, è maturato con un triplice obiettivo: aumentare la consapevolezza sul tema della disabilità e raccogliere fondi per l’acquisto di sedie a rotelle, handbike e qualsiasi attrezzatura che possa essere utile alla riabilitazione e all’attività sportiva dei bambini disabili. Il terzo obiettivo, quello prioritario, è di carattere scientifico e di ricerca. L’impresa del ciclista paraplegico ma indomito non si è, infatti, limitata a lanciare un messaggio di inclusione e a sottolineare l’importanza dello sport come elemento chiave per la salute.

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Matteo Parsani in handbike a Jeddah

L’università Kaust ha avuto un ruolo chiave nel mettere a punto le tecnologie che hanno permesso a Parsani di diventare un ”laboratorio itinerante”, come lui stesso si è definito. “Stando agli esami clinici – aveva spiegato Persani prima della partenza – non dovrei muovere e sentire nulla sotto l’ombelico, dove il midollo e i nervi sono come aggrovigliati. E invece qualcosa si muove, sono un paraplegico incompleto. Monitorare con tecnologie sofisticate come questo groviglio reagirà a sette ore di fatica al giorno, spingendo a forza di braccia una handbike in pieno deserto, potrà fornire risposte e soluzioni molto utili a chi fa ricerca sulla disabilità”.

Dal monitoraggio delle reazioni del sistema nervoso a nuovi paradigmi di esercizi

Durante il suo viaggio Mateo Persani è stato costantemente monitorato tramite tecnologie indossabili tra cui una maglia sensorizzata in grado di rilevare la frequenza cardiaca e respiratoria, a riposo e durante l’attività fisica, un casco alimentato da energia solare che monitora il livello di ossigeno nel sangue, la temperatura corporea e aiuta nella geolocalizzazione. Tutti i dati delle sue prestazioni sono stati inviati tramite il cloud, che abbatte le distanze, all’istituto di ricerca e innovazione dedicato alla Medicina Riabilitativa, Villa Beretta Rehabilitation Research Innovation Institute di Costa Masnaga, Como, per essere processati.
In pratica tutto ciò che Matteo Persani ha indossato durante il suo viaggio sarà utile nel campo della ricerca e per il mondo della riabilitazione e servirà, in particolare, a studiare l’adattamento allo sport di una persona con lesione spinale. “Per la prima volta abbiamo la possibilità di monitorare la risposta all’esercizio del fisico di una persona che ha avuto una lesione midollare per poter capire come il corpo risponde a diverse sollecitazioni ambientali. Sarà interessante soprattutto comprendere in che modo il sistema nervoso centrale si è modificato per effetto di questo allenamento intensivo” ha spiegato Franco Molteni, direttore clinico di Villa Beretta l’istituto che, insieme all’Università Saudita, ha sostenuto il progetto – Sappiamo già che la tecnologia, se usata opportunamente, è in grado di facilitare la neuroplasticità e di cambiare la biologia del nostro corpo. Ora bisogna mettere a frutto il risultato di questo esperimento, per creare paradigmi di esercizi a disposizione di tutte le persone che devono affrontare un percorso riabilitativo”.

Matteo Persani: “sognando in grande si può fare tutto ciò che ci si immagina”

Durante i trenta lunghi giorni di viaggio il professore ha condiviso la sua preziosa esperienza con i residenti di ogni città visitata, immergendosi nelle tradizioni di ogni regione: “Ho vissuto un’ospitalità calorosa ovunque io mi sia fermato. Ho fatto amicizia in diverse parti del Regno, questa è un’esperienza che custodirò dentro di me per sempre. È stato un viaggio impegnativo e sono felice di portare alto il valore del mio motto, ovvero “sognando in grande si può fare tutto ciò che ci si immagina”.

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Matteo Parsani in handbyke a Jeddah

Alcuni giorni, in realtà, pensavo di non farcela – continua il professore – La fatica fisica, le notti ghiacciate alternate ai pomeriggi roventi, ma soprattutto il carico mentale, la tensione, mi hanno messo a dura prova ma ho affrontato questa sfida per dimostrare che anche le persone con disabilità possono fare tutto, anche se in modo diverso”.
Matteo Persani non nasconde le sue debolezze, le sue fragilità emotive.

Athar – East to West: impatto positivo

“Dopo l’incidente ho vissuto due anni in un tunnel buio, mi sentivo mezzo uomo a 36 anni. Poi ho cominciato a riprendermi, anche a livello psicologico, e in quel periodo è successo un fatto che mi ha spinto a compiere questa impresa. Viaggiavo con la mia bici e ho incontrato dei bimbi: questa è una bici per handicappati, mi hanno detto. Ero arrabbiatissimo e ho chiesto loro di utilizzare termini più rispettosi. A quel punto una bambina si è messa a piangere. Temevo di aver urlato troppo,  invece mi ha confidato di aver perso il papà e una delle sorelle in un incidente, mentre l’altra sorella era rimasta in sedia a rotelle, come me. Io ero lì con la mia handbike da 20mila euro, ma c’è chi non se la può permettere. Dovevo fare qualcosa, raccogliere sponsor e fondi per dare speranza e regalare determinazione ai bambini disabili“.
Da qui è nata l’idea del progetto “Athar – East to West”. Ho cominciato ad allenarmi: 80 chilometri di handbike al giorno e poi 2200 metri di nuoto in piscina, il tutto continuando ad insegnare all’università. I miei tremila chilometri in handbike e trike nel deserto serviranno ora anche ad offrire alla scienza un supporto di dati che possa ampliare la conoscenza e le possibilità di chi pensa che la sua vita sia finita il giorno dell’incidente”.

Claudia Meschini

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