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TRAVOLTO DA UN INSOLITO DESTINO

TRAVOLTO DA UN INSOLITO DESTINO

In pochi mesi dalla panchina in B, alla massima serie, fino alla Nazionale. Daniele Magro, pivot padovano dell’Umana Reyer, racconta l’anno più incredibile della sua vita. E non solo. «Come ho fatto? Puro istinto di sopravvivenza…»

8 maggio 2011. Daniele Magro parte dalla panchina nell’incontro valido per i playout della Divisione Nazionale A, Acegas Trieste – Molfetta. Alla fine segna 8 punti. I suoi avversari sono Mastrangelo, Petrazzuoli, Rugolo.

20 luglio 2012. Daniele Magro viene convocato per disputare le qualificazioni agli Europei con la Nazionale maggiore. I suoi compagni sono Gallinari, Datome, Mancinelli. Cos’è successo nel frattempo? Un meteorite ha colpito il pianeta-basket? Forse no, basta solo premere rewind e tornare all’inizio. Non solo una bella vicenda sportiva, quella di Daniele Magro, pivot padovano di Piove di Sacco, classe 1987, atleta dell’Umana Reyer. Sembra quasi una brillante commedia all’italiana, di quelle che hanno fatto la storia del nostro cinema. Intrecci, imprevisti, scene esilaranti, ma non priva di una sua morale.

Una storia che inizia dalla provincia e che tarda a sbocciare. Sfortune sparse, compreso un malanno misterioso che dura per mesi. Un ragazzo nell’età di mezzo, una carriera che stenta a decollare… poi in un anno cambia tutto. La città, l’opportunità sempre sognata e imprevisti a catena. Perfino la più positiva delle sorprese (vedi ricorso vinto e ammissione in A), rischia di diventare la più atroce delle beffe. E invece non è così. Perché dopo poco arrivano inaspettate le luci della ribalta, i successi di squadra, i viaggi all’estero, una maglia azzurra. Il finale, per fortuna, è ancora tutto da scrivere. Ma buona parte della sceneggiatura è già pronta. Dialoghi compresi.

Daniele, per prima cosa ci spieghi come hai fatto a convincere lo staff dell’Umana Reyer a farti diventare un tassello prezioso dell’unica squadra di A del Triveneto? «Come ho fatto? Semplice: puro istinto di sopravvivenza. Nel senso che una volta che mi ci sono trovato dentro, mi sono detto: “È davvero la mia occasione. Dopo tutto questo tempo è arrivato il momento per combinare qualcosa di buono…” E così mi sono tuffato e ho cominciato a nuotare».

Cosa devi allo staff tecnico dell’Umana Reyer capitanato da coach Andrea Mazzon? «Il fatto di essermi sentito preso in considerazione e non come uno sparring partner. Mi hanno aiutato a convincermi che qualcosa potevo davvero fare anche a questo livello».

Quando ti sei detto: “Adesso ci sono anch’io”? «Quando sono sceso in campo la prima volta contro Bourousis, nella partita di andata della stagione scorsa con Milano. Ho capito che ero lì e che ci potevo stare. Tra l’altro quella sera non avevo fatto cose incredibili, ma avevo fatto il mio, senza commettere errori».

Il momento più bello? «Contro Siena, i primi due punti in A. In quell’occasione penso di aver segnato il canestro più facile della mia vita. Mi è bastato appena toccare il pallone con due dita. Al resto ci aveva già pensato Rosselli. È stato fantastico: pronti via e dalla curva arriva una cascata di carta igienica. Partita subito interrotta e tensione che sale alle stelle. La spinta incredibile dei nostri tifosi, la sfida ai campioni in carica. Che emozioni…» C’ERAVAMO TANTO AMATI. Chi sono stati i tuoi primi “maestri”? «A Piove di Sacco Andrea De Rossi, alla Benetton Treviso Christian Fedrigo, poi a Padova Daniele Rubini. Con lui sono dovuto crescere in fretta».

Qualcun altro? «Eddy Cagnin. Insieme a Rubini è stato fondamentale per la mia crescita. Eddy era il mio allenatore in campo. Un tipo tostissimo, che se c’era da giocare anche duro, lo faceva senza remore. Giocavamo sempre insieme e ci scambiavamo i ruoli da quattro a cinque e viceversa. A lui devo davvero un bel po’».

I SOLITI IGNOTI.

Ci racconti dove sei stato prima di tornare in orogranata? «Qui a Venezia avevo giocato il mio ultimo anno di under 19, dopo essere stato a Treviso. Poi sono andato in prestito per tre anni in B2 al Gattamelata Albignasego, che all’epoca era la prima squadra di Padova. I tre anni a Padova, uno in C1 e due in B2, sono culminati con la finale per la promozione in A dilettanti, che però abbiamo perso. Con Rubini in panchina, Marini e Cagnin in campo. Poi mi sono trasferito a Fidenza in A dilettanti. A quei tempi di arrivare nella massima serie non ci pensavo minimamente. Ero in quel periodo della vita in cui davvero si è nel mezzo. All’epoca studiavo e il basket era poco più di un divertimento. Qualche soldino lo prendevo, ma non avevo certe velleità».

Dopo Padova, Fidenza nel 2009. Cosa succede in Emilia? «Un anno non sfruttato. Ero partito bene, il livello del gioco era più alto ma giocavo comunque titolare. Era anche la prima volta che uscivo davvero di casa. Sul più bello, verso novembre, ho cominciato a sentire addosso una grande fatica. Prima una strana febbre, poi in allenamento non ce la facevo addirittura a correre. Ricordo che nella partita contro lo Jesolo non stavo quasi neanche in piedi. Alla fine ho scoperto di aver già avuto una mononucleosi e che avevo addosso una toxoplasmosi attiva. La mia stagione è finita lì. Per guarire del tutto ho dovuto attendere il mese di luglio dell’anno successivo».

L’attesa è stata premiata da una telefonata… «Fortunatamente, grazie ai buoni uffici della Reyer che mi teneva nella sua orbita, mi è arrivata la chiamata di coach Dalmasson a Trieste in A dilettanti. Ovviamente non ci ho pensato un attimo, ho accettato subito. Non potevo rinunciare a una bellissima piazza come Trieste. La stagione non è stata entusiasmante. Non abbiamo raccolto quello che era nei nostri mezzi. Alla fine ci siamo salvati ai playout, ma non è stato facile.».

LA CLASSE OPERAIA VA IN PARADISO.

L’anno dopo la Reyer ti richiama alla base. L’obiettivo è vincere la Legadue. «Per me era l’opportunità della vita. Cominciavo a non essere più così giovanissimo, avevo i miei 24 anni. L’idea era quella di affrontare il campionato di Legadue ovviamente. Potevo giocare con professionisti, gente che ne sapeva. Era il campionato giusto per capire se potevo starci a quel livello, se avevo davvero delle qualità…» E invece cos’è successo? «Succede che un giorno, in precampionato, a fine allenamento, vedo coach Mazzon farsi di corsa tutto il Taliercio, saltando da una parte all’altra, dagli uffici agli spogliatoi. Al momento non ho capito. Poi siamo venuti a sapere che eravamo stati ammessi in A…»

Qual è stato il tuo primo pensiero? «“E adesso che succede?”, ho pensato. Sia chiaro: ero contentissimo per la società, figuriamoci. Per me le cose però cambiavano. Proprio nel momento in cui avevo a disposizione la possibilità di misurarmi ad un buon livello, cambiava tutto. E mi vedevo già in prestito…»

E invece ti è stata data l’opportunità di rimanere, a giocarti la serie A. «E il benvenuto nella massima me lo ho dato Bryan in allenamento. Setto nasale rotto. Così giusto per capire cosa mi avrebbe aspettato…»

In che cosa pensi di essere migliorato?  «Dal punto di vista fisico. Sapevo che a forza di fare “a sportellate”, in allenamento, come in partita, mi sarei rafforzato. Ma sopratutto nella fiducia in me stesso. È quel qualcosa che ti da uno sprint in più. Per il resto sono un giocatore che si mette a disposizione del gruppo».

TRAVOLTI DA UN INSOLITO DESTINO…

Estate 2012. Di nuovo una situazione inaspettata. Convocazione con la Nazionale Sperimentale. «Mi ha colto del tutto impreparato. Ero con uno dei giovani dell’Umana Reyer, Vincenzo Pipitone, che sarebbe partito di lì a poco per gli impegni con la Nazionale under 19. Lo stavo prendendo in giro perché io me ne andavo in vacanza e lui no, quando mi è arrivata una telefonata: ero convocato con la Sperimentale. E il primo pensiero è stato: “Addio caparra delle ferie…”».

Come è andata? «Prima siamo passati sotto le cure di Ramagli e Capobianco. Poi è arrivato anche Dalmonte. Tutto era davvero oro colato. Mi hanno accolto bene e una volta lì non è che restasse molto da fare se non sgobbare alla grande! Albergo, palestra, palestra, albergo. Stop. Anche perché a Folgaria, sede del ritiro, la sera non c’è molto altro da fare…  In ogni caso sembrava un po’ un raduno delle giovanili, c’era un bel clima».

Come è stato l’impatto con il basket internazionale? «Quando abbiamo iniziato le amichevoli, l’aria è cambiata parecchio. E lì mi sono reso conto di come il basket internazionale sia tutto un altro livello. Mi è bastato incrociare la Francia di Diawara. Ci hanno rifilato un bel -20 tanto per gradire. Giocatori come De Colo e Batum sono davvero impressionanti. Per non parlare di Diaw: ha due pale al posto delle mani, ma delle dita fatate…»

Finite le amichevoli, eri pronto a partire finalmente per le ferie. Invece… «Invece, come se non bastasse, finite le amichevoli, Dalmonte mi ha chiamato da parte e mi ha detto: “Avrei pensato a te per la Nazionale maggiore”. Al momento non ho neanche capito bene cosa mi avesse detto. Sono rimasto impietrito.  “Ehi non fare i salti di gioia mi raccomando…” mi ha detto con ironia. In realtà ero solo frastornato…»

E del metodo-Pianigiani, cosa ci dici? «Con lui la quantità di lavoro da svolgere è cresciuta incredibilmente».

Un pensiero agli Europei lo stai facendo? «No, non in questo momento. Ho già tanto da pensare per far bene qui con l’Umana Reyer, la mia squadra, che… basta e avanza!»

AMICI MIEI.

Raccontaci dei tuoi compagni d’azzurro. Come ti hanno accolto? «Molto bene. Ma devo parlare di Gallinari prima di tutti. È una star NBA e ti immagini che se la tiri. Niente di più sbagliato. È la persona più brava del mondo, un pezzo di pane. Dentro e fuori dal campo. Ben presto siamo diventati compagni di Monopoli durante i viaggi di spostamento»

E gli altri? «Mi sono trovato benissimo con tutti. Con lo stesso Gigi Datome, che era in un momento di grazia. E poi Viggiano, Vitali, Cavaliero, lo stesso Chessa, che come me aveva preso parte alla Sperimentale. Era davvero un bel gruppo, lo hanno detto in molti e non è un caso che siano arrivati anche i risultati».

AMICI MIEI (PARTE II).

Tuo zio Luigi Magro, ex giocatore negli anni della A2 a Padova, è un punto di riferimento per te? «Assolutamente sì. Con mio zio parlo sempre di basket. Sin da quando ero ragazzino. Da piccolo i miei fine settimana erano andare a vedere mio zio che giocava. Aspettavo solo la partita, pacchetto di patatine in mano e via con la palla a due! È sempre stata una questione di famiglia. I miei primi tiri li facevo al canestro attaccato sul muro di casa di mia nonna, che abitava di fianco a noi. All’inizio facevo solo finta di tirare, anche perché era altissimo, sarà stato attaccato a 3 metri e 20 anziché i canonici 3,05…»

E poi ci sono anche gli Old Stingers, la squadra Over 40 di tuo zio… «È stato il mio appuntamento fisso tutte le estati, fino all’anno scorso, in cui sono stato via con la Nazionale. Un bel salto! Ci sono mio zio e tanti celebri ex del basket padovano come Gherardo Bonetto, sempre col suo tiro stranissimo, lo stesso Eddy Cagnin. È troppo divertente vederli schiattare, dopo un po’ che corriamo. E che sportellate con mio zio! Col fisico alla fine ho la meglio, ma ogni tanto mi frega: la manina buona quella ce l’ha sempre…»

LA GRANDE ABBUFFATA.

La tua famiglia ha un ristorante rinomato in quel di Camin, alle porte di Padova. Qual è il tuo menù ideale “post-vittoria”? «Allora vediamo… Col primo si inizia con pasticcio di melanzane, non ci sono storie. Di secondo, se vogliamo essere raffinati un filetto all’aceto balsamico. Altrimenti vado di sostanza e dico una bella costata da chilo. Dopo una partita c’è bisogno di quantità. Poi non disdegno la verdura, sia insalata, ma anche carciofi. Ci sarebbe anche il carrello dei bolliti, ma quello meglio di no, c’è sempre il rischio di finirci sopra! Per chiudere tiramisù, fatto da me».

In che senso? «Nel senso che vado in cucina e me lo preparo. Prendo i savoiardi già intinti nel caffè e la crema al mascarpone me la metto sopra io. Bella abbondante. In pratica, una badilata».

Buon appetito! «Grazie!».

 

DI ALESSANDRO TOMASUTTI

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