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LA LEGGENDA DELLA MISERICORDIA

LA LEGGENDA DELLA MISERICORDIA


La Reyer è tornata nella sua antica casa riaprendo uno scrigno magico di emozioni. Nomi, tradizioni, aneddoti che si legano alla storia, non solo sportiva, della città
C’era una volta la Misericordia… Così comincia, signore e signori, giovanotti e bambini del terzo Millennio, la nostra storia, anzi la nostra preistoria. Quella della palla-al-cesto (o al balzello), madre della pallacanestro, nonna del basket di oggi. La favola della Reyer, un palindromo che, per chi scrive, suona dolce e amato. Come ara… del sacrificio. Sacrificio sportivo di molti, atleti e atlete, uomini e donne. C’era una volta, a Cannaregio 3599, la Scola Grande, capolavoro di Sansovino, con i barbari al di qua e al di là dell’acqua a minacciare come i franchi tiratori di Pipino/Peppino (non il figlio di Carlo Magno ma il nano felsineo, innamorato di Alesini, Zuccheri, Villalta e delle altre V nere) o come i longobardi armati di Desiderio, del triangolo Milano-Varese-Cantù che, calando dalla terraferma, puntavano a bottini spesso decisivi per la conquista del tricolore: non è leggenda, chi salvava la pelle a Venezia aveva mezzo scudetto in tasca. Cera una volta la pattuglia acrobatica granata (stessi colori di un’altra leggenda sportiva, il Grande Torino) che vendeva cara la pelle, difendendo la propria tana contro squadre dal nome classico.
Il latino, un tempo, andava di moda, non solo nelle chiese: Libertas (da Biella a Livorno, da  Brindisi a Forlì), Fortitudo, Robur et Fides,  Mens Sana e, dulcis in fundo, Olimpia antenata delle “scarpette rosse”, cugina di derby meneghini con All’Onestà dell’ex Garbosi, degno allievo di Carmelo Vidal. C’era una volta la gara di tuffi nel rio di Noale (e guarda caso Noalex fu il primo sponsor) al termine degli allenamenti all’ora di cena. Prima gli atleti reyerini lavoravano da Coin, alla Telve, alle Generali, all’Acnil, nella bottega paterna o nelle scuole dove gli allievi erano i primi fans, mentre Babi e Gino Campanini scaricavano bibite o Giorgio Bianchi carnami. C’era una volta l’esterno della Misericordia con la lapide in marmo d’Istria ad imperitura memoria di Cesare Battisti, il capitello della Madonna bizantina dove ci si sedeve al tramonto, prima di imboscarsi con la morosa nel porticato de l’Abazia, sotto il fanale in vetro eternamente rotto. C’era una volta il pianoterra della Misericordia, odorante di polvere e sudore, dove i lottatori di Fornasini (tra cui Livio Maso, nipote di Anna, campionessa d’Italia con la squadra femminile di basket insieme alla Lolli, moglie dello storico allenatore Amerigo Penzo, a Rina, mamma del futuro arbitro Stefano Cazzaro, Silvana, sorella dei Campanini, in campo sul fronte maschile) e i pugili di Paoletti (su tutti Scarabellin e Cavalieri) si disputavano i pochi spazi liberi.
C’era una volta l’ammezzato con la casa del custode di turno da cui uscivano profumi di salsa di pomodoro o, sotto quaresima, pesce fritto. E poi? Su sempre più su, pestando i piedi su ogni scalino in legno, quasi per farsi coraggio o per spaventare gli avversari, si chiamassero Stella Azzurra di Gasmann, Petrarca di Moe, OKK di Korac. I più odiati? Lombardi, Rubini, Meneghin, Tonzig, Taurisano, Masini, Albanesi. Perfino il Tonino targato Gorizia prima che diventasse l’head coach di Ettore Messina. C’era una volta lo scalone d’onore con l’ultimo pianerottolo dove ansimando si trovava l’ambulante con i caramellati d’uva e d’albicocca,  con le giuggiole di gomma “per sigar forsa Reyer de peto!”, dentro un contenitore in vetro che, se rinvenuto, di diritto dovrebbe far parte della Hall of Fame. C’era una volta la panna in ghiaccio di Mario Schiavon, il tè caldo di Tonetti, l’acqua delle docce  a “temperatura ambiente” fino ai restauri della giunta Favaretto-Fisca, con la legna per la stufa portata dagli stessi atleti. Assai più bollenti gli sguardi verso le allieve di Bognolo e le ginnaste allenate dalla Tondolo. C’era una volta il campo – fino al 1954 in bitume – misurato per verificarne la regolarità, metro in mano, ma secondo l’invito dei mille e non più mille spettatori doveva essere messo in altro orifizio, da Porelli & Peterson. Indimenticabili i tabelloni manuali dei punti sui finestroni tra gli affreschi (e il volontario che si offriva per fare il segnapunti entrava gratis); con la ressa al botteghino presidiato dalla figlia di “Starace” Sambo e De Respinis (futuro g.m.) a bucare i biglietti. C’erano una volta le gesta dei nostrani Stefanini-Campanini-Cedolini. Ma anche dei “foresti” Stephanidis, Djuric (precursore di Praja), Sanford, Hawes integrati e incoronati profeti del tempio al pari di Ezechiele e di David. C’era una volta il fumo delle sigarette di Amerigo Penzo, manico da panchina, e delle pipe di Guido Manzini, di Gian Maria Santi (si vincesse o si perdesse, proponeva sempre una tappa da Gigio o All’Antica Besseta, al Colombo o da Giambara), il bastone di Delfo Fuga e la carota di Gigi Marsico, il risolino di Toni Lelli e il sorriso di Burcovich.
C’era una volta l’urlo di battaglia il “Duri i banchi, fjoi”, il “Cambia, Giulio!” sparato dalla tribuna d’onore, dove, accanto al “doge” Ligabue, sedeva Valeri Manera, fondatore del premio Campiello e presidente degli industriali, al povero Geroli. Pronta la risposta: “Con chi?”. C’era una volta la photo-gallery: Sardagna con la valigia, Ubiratan in gondola, Ferro in testa a Bovone, la battaglia di Zama(rin), i tiri tesi di Vito Toso. C’era una volta la teca, custodita da Pisani e finita chissà dove. Gagliardetti, coppe a forma di colonne rostrate, di fiamme eterne, di aquile bipenni, cimeli. C’era una volta la Misericordia, i cui applausi leggevo incisi sulle tombe di “Ciai” Rossi, di Giulio Borsoi, di Guido Garlato, eroi del Walhalla reyerino, tappe obbligate nel pellegrinaggio annuale al cimitero di San Michele.
misericordia
C’era una volta il phil rouge sangue granata per il naso fratturato di Vincenti, il dito lussato di Lessana, l’orgoglio frantumato del clan Cedolini, capitano degradato dopo il ritorno di Toni “Nane” Vianello, entrambi bandiere della Reyer come i capitani che li precedettero e che li seguiranno. C’era una volta, un secolo prima di Reyerzine, il BasketBoom di Sandro Scabello, lo Yearbook con Carraro in copertina. A costoro ma soprattutto a quanti, senza volere, abbiamo dimenticato, una sola preghiera, anzi un urlo: “Per i miseri implora perdono, per i deboli implora pietà…”. A costo di correggere  Eraclito, dopo 4000 anni, sperando che sia iniziato il Rinascimento della Reyer e di Venezia, ormai si punta alle Olimpiadi 2020 e al Secolo e mezzo del 2022 per cui, oggi più di ieri e meno di domani, è davvero l’ora di dire “PANTA REY-ER”!
DI MASSIMO FOSCATO

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