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IL LESSICO DEL BASKET

IL LESSICO DEL BASKET

Dall’italiano all’inglese passando per il linguaggio del corpo

A livello di lessico il basket è cambiato molto negli anni. Quando io allenavo parlavo solo in italiano e molti atleti americani che venivano a giocare qui imparavano a fare altrettanto. Oggi invece avviene è il contrario: dal punto di vista della lingua è quasi come se stessimo parlando di squadre straniere che giocano in Italia. Ovviamente questa è una conseguenza del fatto che ai miei tempi c’erano uno o due stranieri per squadra mentre oggi ce ne sono molti di più. Certo questo comporta uno sforzo in più per gli allenatori e per i giovani che si affacciano alla prima squadra. Ma è anche qualcosa che arricchisce perché, come ha detto qualcuno, “un uomo che parla un’altra lingua è come se avesse un’altra anima”. E per i giovani che quotidianamente si confrontano in campo con gli stranieri, questo sforzo può valere quanto un anno di università.

C’è da dire inoltre che i giocatori italiani che si sforzano per comunicare in inglese spesso conquistano la stima dei compagni stranieri. O per lo meno era così ai miei tempi. Ricordo che un giocatore molto snob e al tempo stesso molto intelligente come Joe Berry Carroll era molto sorpreso del fatto che qui in Italia tutti gli parlavano in inglese. Ma così facendo i suoi compagni si sono guadagnati il suo rispetto. Ovvio che poi la commistione di italiano e inglese ha dato vita ad una serie infinita di episodi buffi o di giochi lessicali come per esempio faceva Cesare Rubini che usava fingere di confondere “fast break” (contropiede) e “break fast” (colazione).

Diverso invece è il discorso quando si parla del lessico del basket pensando alla divulgazione di questo sport. C’è infatti la tendenza ad utilizzare termini di matrice anglosassone che complicano la comprensione della pallacanestro soprattutto verso chi la conosce poco. Da questo punto di vista io per esempio come telecronista non utilizzo mai americanismi o ne faccio il minor uso possibile. Preferisco dire “gioco a due” piuttosto che “pick and roll”, preferisco utilizzare “dai e vai” anziché “give and go” e forse questa è anche una conseguenza del fatto che, come dicevo, quando allenavo lo facevo sempre in italiano. Ma per un allenatore è importante anche saper leggere e saper insegnare il linguaggio del corpo.

Per esempio ci sono giocatori che quando commettono il terzo fallo puoi capire dalla loro faccia cosa fare: se lasciarli in campo oppure toglierli perché presto commetteranno quarto e quinto. Un allenatore deve infatti saper leggere, oltre che le situazioni di gioco, anche i movimenti e le espressioni del corpo. I giocatori intelligenti, li capisci anche dalla faccia. Ecco perché io dico che conoscere gli atleti significa conoscerne anche gli atteggiamenti. Senza trascurare di insegnare loro anche ad esprimersi nei confronti dell’arbitro. Per esempio spiegando all’atleta che non bisogna mai mettere l’arbitro in cattiva luce, mai dargli modo di incrociarti con gli occhi. Forse anche grazie a questo io ho avuto giocatori che raramente commettevano cinque falli come Mike D’Antoni. E anche nella scelta di un giocatore un allenatore si basa sul modo che questo ha di muoversi. Un esempio su tutti? Roberto Premier. A livello tecnico i suoi movimenti non erano da manuale ma dal suo modo di muoversi si capiva che era impavido, che era uno che sapeva esaltarsi nella lotta.

DI DAN PETERSON

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