Primi incoraggianti risultati dai test svolti in Inghilterra applicando una tecnologia che guarda ai marcatori epigenetici per una sindrome finora difficile da diagnosticare
La stanchezza, ricorda l’Istituto Superiore di Sanità, può manifestarsi in diverse forme.
C’è quella acuta, generalmente legata a una singola causa, che abbiamo provato tutti ed è in sostanza un meccanismo fisiologico attraverso il quale il nostro organismo si protegge da vari tipi di stress.
Tutt’altra cosa è la fatica cronica, che invece è da considerarsi come una vera e propria malattia (definita anche encefalomielite mialgica), caratterizzata da una stanchezza intensa, continua e debilitante, sia a livello mentale che fisico, che compare anche facendo uno sforzo minimo.
I problemi, per questa seconda forma di fatica, non si legano solo al fatto che, a differenza della prima, non si può risolvere con il semplice riposo o con il cambiamento di alcuni aspetti dello stile di vita come dieta, esercizio fisico o controllo dello stress. Al momento attuale, infatti, non ci sono nemmeno esami specifici per diagnosticare la sindrome da fatica cronica. Una mancanza che, però, adesso potrebbe essere colmata se verranno confermate le prime, estremamente promettenti, indicazioni emerse dai test effettuati da studiosi britannici sulla possibilità di individuare dei marcatori attraverso semplici esami del sangue.
Verso un test sul sangue per accertare la sindrome da fatica cronica
I risultati degli esperimenti condotti da un team di scienziati dell’Università dell’East Anglia in collaborazione con colleghi di altri istituti britannici sono stati pubblicati sul Journal of Translational Medicine.
Premesso che la ricerca è ancora a livello sperimentale, condotta sui campioni di sangue di appena 47 pazienti con encefalite mialgica in forma grave e 61 adulti sani come gruppo di confronto, la sofisticata tecnologia utilizzata ha dimostrato una sensibilità (ovvero la quota di test positivi in soggetti malati) del 92% e una specificità (cioè un risultato negativo nei test su soggetti sani) del 98%. Un’elevata accuratezza complessiva che, una volta ampliato il campione a migliaia di pazienti in studi di fase 3, apre la speranza di poter aggiungere in futuro alla pratica clinica un test in grado di fornire in tempi rapidi una diagnosi oggettiva. Per accertare di essere realmente in presenza di un caso di encefalite mialgica potrebbe cioè bastare un semplice esame del sangue, superando anche il limite delle lunghe tempistiche richieste dalle attuali linee guida, che richiedono la persistenza per almeno 6 mesi di una condizione contrassegnata da specifici sintomi debilitanti e da 4 o più di alcuni disturbi correlati.
La risposta? È contenuta nel Dna
I primi risultati emersi dai test hanno permesso agli scienziati di scoprire che i pazienti affetti dalla sindrome da fatica cronica sono accomunati da un unico modello di ripiegamento del Dna all’interno delle cellule del sangue, da considerarsi quindi come una sorta di “firma biologica” della malattia.
Attraverso la nuova tecnologia è possibile individuare i 200 distinti biomarcatori epigenetici che compongono il modello adottato, ovvero le anomalie nelle conformazioni dei cromosomi, diversi da quelli che compongono il codice genetico fisso, legate a cambiamenti avvenuti nel corso della vita di una persona. L’utilizzo di anomalie epigenetiche specifiche per ottenere informazioni diagnostiche è utilizzato anche per altre malattie come la Sla, l’artrite reumatoide, il Covid-19 in forma grave ed alcuni tumori, tra cui quelli alla prostata, al colon-retto e una tipologia di linfoma. Tra le altre scoperte del team britannico, il fatto che lo sviluppo della stanchezza cronica può legarsi anche ad altri fattori come interleuchine, neuroinfiammazione o segnalazione del recettore Toll-like, fornendo elementi utili nella prospettiva futura dello sviluppo di una terapia specifica mirata per la malattia, al momento non disponibile.
Sindrome da fatica cronica: a che punto siamo
La sindrome, del resto, è stata definita solo di recente e paga ancora il diffuso scetticismo circa l’opportunità di considerarla come una malattia vera e propria. Unito alla complessità della diagnosi, che al momento può essere frutto solo di un lavoro di esclusione, anche di tutte le altre condizioni mediche che possono giustificare i disturbi, questo pregiudizio ne ritarda a dismisura l’accertamento. E questo nonostante si tratti di una malattia invalidante, che peggiora notevolmente la qualità della vita, limitando le attività lavorative, sociali e personali, spesso con disturbi simili a quelli tipici di un’influenza cronica che dura per anni ma in generale molto variabili per gravità e intensità. La comparsa della fatica cronica tendenzialmente avviene tra i 20 e i 40 anni, anche se è possibile un esordio anche in età pediatrica o adolescenziale, ed è configurabile come una malattia multifattoriale “di genere”, colpendo le femmine più che i maschi, in un rapporto di 4 a 1.
Alberto Minazzi