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Donne più longeve: non è solo genetica

Donne più longeve: non è solo genetica

Uno studio internazionale individua una serie di fattori alla base delle statistiche secondo cui le femmine dei mammiferi vivono più dei maschi della stessa specie

Secondo le più recenti stime Istat, l’aspettativa di vita alla nascita in Italia è pari a circa 85,2 anni per le donne e a 81,1 per gli uomini. Ma che le femmine vivano di più dei maschi non è una notizia: avviene da sempre, in ogni parte del mondo.
E, anzi, questa statistica accomuna il genere umano con gli altri mammiferi.
Questione di genetica, si è sempre pensato. La risposta a questa ipotesi è però meno scontata di quanto si possa immaginare.
“Sì, ma non solo”, si potrebbe dire, adesso che un gruppo di ricercatori internazionali coordinati dal Max Planck Institute for Evolutionary Anthropology di Lipsia, in Germania, ha pubblicato i risultati dello studio in cui hanno provato a dare risposta alla domanda sul perché donne e uomini invecchiano in modo diverso.

Il segreto della doppia “X”

Il lavoro del team di scienziati ha permesso di effettuare la più completa analisi delle differenze sessuali nella durata della vita tra mammiferi e uccelli finora mai condotta, concentrandosi su ben 1.176 specie ospitate negli zoo di tutto il mondo.
Va premesso che, solitamente, la differenza statistica favorevole alle femmine (quantificata dallo studio in un +13% medio) è comune tra i mammiferi ma non in altre classi animali: in molti insetti, rettili e uccelli (per questi ultimi si parla di una vita più lunga del +5% rispetto all’altro sesso) i più longevi sono i maschi. Ad avallare la teoria che la durata della vita sia una questione di cromosomi è proprio la differenza genetica tra mammiferi e uccelli: nei primi, compresa la specie umana, sono i maschi ad avere un cromosoma “X” e uno “Y”, mentre il sesso eterogametico degli uccelli è al contrario quello femminile, che ha una “Z” e due “W” rispetto alle due “Z” che determinano il sesso maschile. E alcune ricerche sembrano indicare che avere 2 cromosomi sessuali uguali può proteggere da mutazioni dannose, offrendo un vantaggio di sopravvivenza. L’ipotesi ha trovato conferme, nel nuovo studio, guardando i registri degli animali in cattività: nel 72% per cento delle specie di mammiferi le femmine vivevano più a lungo, così come avveniva, in questo caso per i maschi, per il 68% delle specie di uccelli.

La genetica non basta

Se, come si usa dire, le eccezioni normalmente confermano le regole, in questo caso le anomalie opposte al modello previsto emerse dall’analisi sui dati relativi animali degli zoo hanno spinto i ricercatori ad approfondire l’influenza anche di altri fattori.
“In molti rapaci – sottolinea l’autrice principale, Johanna Stark, sul sito del Max Planck – le femmine sono sia più grandi che più longeve dei maschi. Quindi i cromosomi sessuali possono essere solo parte della storia”.
Il contrario, tra i mammiferi, si verifica invece in alcuni canidi, roditori e lemuri. Si è così scoperto che a incidere sulla durata della vita sono anche le strategie riproduttive. Per esempio, lo sviluppo di caratteristiche come il piumaggio colorato o le grandi dimensioni del corpo aumentano, attraverso la selezione sessuale, il successo riproduttivo ma possono accorciare la durata della vita. A conferma di ciò, il fatto che, nei mammiferi poligami con una forte competizione, tra cui il testosterone ha un peso importante per l’aumento di forza e aggressività, i maschi generalmente muoiono prima delle femmine, probabilmente anche perché questo ormone aumenta stress ossidativo e infiammazione. Nelle numerose specie monogame di uccelli come cigni e albatri, tra cui la pressione competitiva è inferiore, i maschi invece spesso vivono più a lungo. A pesare positivamente sulla longevità è inoltre lo svolgimento di attività di cura genitoriale. Sono infatti emerse prove che, tra i mammiferi, il sesso (generalmente femminile) che investe di più nell’allevamento della prole tende a vivere più a lungo, probabilmente per facilitare il raggiungimento dell’età in cui i figli sono indipendenti.

Il peso delle pressioni ambientali e le prospettive

Da tempo, poi, sono diffuse teorie che includono, tra le radici evolutive del divario di durata della vita tra maschi e femmine, le pressioni ambientali, che per gli animali sono rappresentate per esempio da predazione, agenti patogeni o climi rigidi.
Il gruppo di ricercatori ha dunque testato anche questa ipotesi effettuando un confronto tra le popolazioni selvatiche e quelle in cattività, considerato che gli animali negli zoo sono molto meno esposti.
Ne è risultato che i fattori ambientali giocano effettivamente un ruolo, sia pure solo parziale sulla longevità di genere.
Le differenze di sesso, pur scomparendo assai raramente tra gli esemplari protetti in condizione di cattività, sono cioè molto più marcate tra quelli in libertà: il vantaggio femminile medio tra i mammiferi è del 18% in natura contro il 12% tra le popolazioni animali degli zoo, quello maschile tra gli uccelli è circa 5 volte maggiore allo stato selvatico rispetto al 5% in cattività. Rapportato al genere umano, ciò è paragonabile al fatto che, nonostante i progressi della medicina e il miglioramento generale delle condizioni di vita, il divario di genere sulla durata dell’esistenza non è stato annullato, pur risultando di gran lunga inferiore a quello di altri primati. La conclusione cui sono giunti gli scienziati è allora che le differenze di sesso nella durata della vita sono parte della nostra storia evolutiva. Di conseguenza, essendo profondamente radicate in questi processi, è improbabile che le differenze tra uomo e donna nelle prospettive di vita possano essere presto eliminate. I tempi biologici, insomma, sono piuttosto lunghi e il progresso può ridurre i gap ma non sovvertire la natura.

Alberto Minazzi

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