I progressi della ricerca aprono una nuova strada per migliorare i dispositivi con cui ridare voce a chi non riesce a esprimersi per problemi di salute
Tra le serie conseguenze che deve affrontare chi, per esempio, si ammala di Sla o riesce a superare un ictus c’è anche la perdita della capacità di esprimersi attraverso la propria voce. Per dare una risposta alle necessità di queste persone, la tecnologia è già riuscita a sviluppare una serie di interfacce tra cervello e computer (riassunte nell’acronimo Bci) capaci di interpretare e tradurre in parole i segnali cerebrali o addirittura il semplice tracciamento dei movimenti oculari. Tutti i sistemi di questo tipo finora disponibili presentano delle limitazioni intrinseche, come quelle legate ai tempi necessari per effettuare la traduzione degli input una volta ricevuti o alla richiesta all’utente di provare comunque a produrre un discorso al meglio delle proprie capacità. Ma la ricerca non si ferma. E, anzi, ha registrato ora un passo avanti potenzialmente rivoluzionario nella prospettiva di sviluppare dispositivi Bci in grado di sfruttare direttamente il linguaggio interno al cervello.
Tradurre in tempo reale i segnali interni al cervello in parole
Già lo scorso anno un gruppo di lavoro statunitense era riuscito a sviluppare un primo Bci con queste caratteristiche, basato sui segnali sviluppati all’interno del cosiddetto “giro sopramarginale”, ovvero una regione del cervello che svolge un ruolo importante nel discorso e nel linguaggio. Il nuovo studio, appena pubblicato sulla rivista Cell, ha compiuto adesso un ulteriore step, concentrandosi sui segnali cerebrali raccolti attraverso una serie di microelettrodi posti nella corteccia motoria correlata al linguaggio di 4 persone con difficoltà a parlare per problemi fisici. “Abbiamo scoperto – spiegano i ricercatori – che le frasi immaginate possono essere decodificate in tempo reale”. In questa prospettiva, sono stati quindi addestrati i modelli di intelligenza artificiale a riconoscere, all’interno delle registrazioni neurali, i fonemi, cioè le più piccole unità di discorso, unendoli poi attraverso modelli linguistici per formare parole e frasi. E le frasi immaginate, spiega lo studio, sono state interpretate correttamente nel 74% dei casi.
La password a tutela della privacy mentale
Come ammettono gli stessi studiosi, si tratta ancora solo di un’esplorazione iniziale, anche in considerazione della dimensione limitata del campione, di un pur promettente campo di ricerca. Ma già a questo livello i ricercatori si sono posti la problematica di come distinguere dagli altri i “discorsi interni privati” che la persona sviluppa nel suo cervello senza intenzione di esternarli. È emerso infatti che la stessa regione cerebrale produce segnali neurali simili tanto per i discorsi tentati che per i cosiddetti discorsi interiori. Al tempo stesso, però, i segnali associati a questi secondi sono risultati più deboli. A tutela di questa “privacy mentale” è stata così sperimentata la soluzione di un semplice meccanismo di password. L’utente, cioè, può sbloccare la decodifica da parte del Bci degli altri segnali prodotti dal suo cervello semplicemente “pronunciando internamente” una parola chiave, a sua volta rilevata dal dispositivo. Un sistema, si sottolinea, che è in grado di funzionare “con elevata precisione”.
Alberto Minazzi