L’analisi della Cgil: l’aumento dei requisiti per l’uscita dal lavoro dal 2028 graverà in maniera più pesante sui “lavoratori poveri”
Neanche la pensione è uguale per tutti. E non solo per lo strutturale gap generazionale, con il peso dei “diritti acquisiti” dagli ex lavoratori del passato, tra vecchie “pensioni baby” e sistema retributivo, che rischia in un futuro tutt’altro che lontano di mandare in tilt l’intero sistema previdenziale. Nuove disparità riguardano infatti anche chi è attualmente attivo. Perché, sottolinea un’analisi dell’Osservatorio previdenza della Cgil, l’aumento dei requisiti pensionistici previsto dal Governo nella Legge di Bilancio peserà molto di più sui cosiddetti “lavoratori poveri”. Anche nella prospettiva della maturazione dei minimi richiesti per la quiescenza, allungando dunque ulteriormente il tempo per la fuoriuscita dal mondo del lavoro.
Lavoro povero: le prospettive pensionistiche dal 2028
Il punto di partenza della riflessione riguarda proprio il tema delle retribuzioni. In Italia, sottolinea il sindacato, oltre 5,1 milioni di persone, pari al 29% dei dipendenti privati, pur lavorando non riesce a farsi riconoscere un anno pieno di contributi, perché “intrappolato in contratti brevi, part-time involontari e salari troppo bassi”.
Una condizione, si aggiunge, che, oltre al discorso territoriale (al Sud e nelle Isole le retribuzioni sono inferiori), riguarda soprattutto categorie meno tutelate come donne e giovani, che così subiranno le conseguenze peggiori dell’aumento automatico dei requisiti legato all’aspettativa di vita, potendo andare in pensione sempre più tardi.
L’aumento formale di 3 mesi che la Manovra prevede scatti dal 2028 per i requisiti pensionistici si tradurrà infatti, per i redditi bassi, in un prolungamento concretamente ben superiore del periodo lavorativo.
“Ad esempio – spiega Ezio Cigna, responsabile delle politiche previdenziali della Cgil nazionale – con 5 mila euro annui per ottenere i 3 mesi aggiuntivi previsti serviranno quasi 2 mesi di lavoro in più. Nel 2040, per compensare l’ulteriore incremento, ne serviranno oltre 7. Nel 2050 si arriverà a 1 anno e 1 mese di lavoro in più, perché ogni 20 mesi lavorati ne varranno solo 12 ai fini della pensione”.
Pensione: un privilegio per pochi?
La pensione diventa così sempre più lontana proprio per chi ha avuto una vita lavorativa determinata da bassi salari. “ La pensione non può diventare un privilegio per pochi- commenta Lara Ghiglione, segretaria confederale della Cgil – Chi ha svolto lavori più poveri, precari e pesanti deve poter andare in pensione prima, non dopo. Non si può essere poveri mentre si lavora e ancora più poveri da pensionati, magari dopo aver lavorato una vita”.
Gli effetti, del resto, sono rilevanti non solo per chi ha un reddito minimo. Anche salendo a 8 mila euro annui, la simulazione dice che nel 2028 servirà per la pensione circa un mese e una settimana in più di lavoro, crescendo via via fino a 8 mesi aggiuntivi nel 2050. Ma anche chi guadagna 1.000 euro al mese sarà costretto a lavorare 2 settimane in più per perfezionare ai fini pensionistici l’aumento di 3 mesi del 2028. Ma non finisce qui. La Cgil aggiunge una riflessione sul minimale contributivo, che, dal 2022, è cresciuto del +16,5%, molto più dei salari, raggiungendo i 12.551 euro nel 2025. “Questo significa – conclude Cigna – che, senza rinnovi dei contratti e senza aumenti che tengano almeno il passo con l’inflazione, anche chi lavora tutto l’anno rischia di perdere settimane di contributi utili, pur avendo lavorato ogni singolo giorno”.
Alberto Minazzi



