Una ricerca di Eumetra analizza l’evoluzione del cambiamento del rapporto tra gli italiani e gli spot. Intanto, l’Unione Consumatori sottolinea i dati allarmanti sul telemarketing emersi nella relazione del Garante
Sull’irrealtà della “famiglia felice” simbolo degli spot di un noto marchio di merendine, negli anni si sono moltiplicati gli sketch comici. Ma l’evoluzione della comunicazione pubblicitaria è un tema serissimo, che procede di pari passo con il cambiamento delle sensibilità all’interno della società civile. Così l’utilizzo di luoghi comuni e stereotipi da parte dei creativi è ormai da considerarsi un vero e proprio boomerang. Al contrario, la coerenza, intesa come legame saldo e credibile tra ciò che i brand promettono e ciò che effettivamente realizzano è a tutti gli effetti il pilastro portante della pubblicità del terzo millennio, indicata dal 66% degli interpellati come aspetto principale per la fiducia nei confronti di un marchio. Lo sottolinea la ricerca “Generi e generazioni allo specchio” sull’inclusione e la parità di genere in pubblicità, svolta dall’istituto indipendente di ricerca sociale e di marketing Eumetra, che ha riscontrato il crescente sentimento di esclusione degli italiani rispetto ai messaggi promozionali.
Il “no” intergenerazionale e trasversale agli stereotipi in pubblicità
Tra i risultati più sorprendenti emersi dalle oltre 2 mila interviste effettuate, c’è la vicinanza di sentimenti tra 2 generazioni tradizionalmente considerate agli opposti: la “Gen Z” e i “Baby Boomer”. Pur discostandosi di poco (toccando l’81%) dalla media generale al 79% (con un 73% che ritiene urgente intervenire per promuovere una maggiore inclusione), sono infatti le classi di età estreme quelle più critiche nei confronti dell’immagine che viene data della loro categoria di appartenenza all’interno degli spot. I “Boomer”, riscontrano che il racconto nelle rappresentazioni pubblicitarie sembra ignorare la complessità e l’evoluzione del loro ruolo nella società e nella famiglia. I più giovani motivano invece la risposta affermando che gli stereotipi utilizzati in pubblicità non rispecchiano l’identità fluida e autentica tipica della loro generazione. Del resto, in generale, secondo l’indagine solo il 7% delle donne e il 15% degli uomini ritengono che le aziende compiano azioni tangibili per la parità, il 35% delle femmine e il 18% dei maschi giudica questi sforzi come mera operazione di facciata e il 62% delle intervistate (contro il 39% degli intervistati) desidera un impegno più robusto sui temi di genere. Affrontare seriamente questi temi ha del resto un impatto diretto sulla reputazione aziendale, creando valore per la società, secondo il 40% delle donne e il 29% degli uomini.
I 5 pilastri della pubblicità oggi
Eumetra ha così elaborato un nuovo modello per valutare l’efficacia della comunicazione dal punto di vista dei princìpi di “Diversity, Equity & Inclusion”, vista non solo come questione etica, ma anche come leva competitiva, potendo generare valore, fiducia, reputazione e attrattività. La corrispondenza tra parole, azioni e valori che sia in grado di portare il messaggio pubblicitario oltre il livello tradizionale di mera dichiarazione simbolica passa attraverso la valutazione da parte del pubblico sulla base di 5 criteri. Il primo, come visto, è la coerenza. Segue, indicata dal 48% degli intervistati, un’inclusività reale e, poco sotto (47%), il rispetto e (46%) il valore che deriva da campagne che sappiano tradursi in pratiche concrete e narrative autentiche. Chiude la lista, al 41%, l’empatia, attraverso cui si può però creare un rapporto duraturo con i consumatori, facendoli sentire compresi e considerati, all”interno di connessioni più autentiche che passano proprio attraverso il colmare il gap di rappresentazione. L’urgenza di ripensare linguaggi, immagini e scenari offerti ai diversi target demografici ha in ogni caso un peso differente in base ai diversi comparti. Le campagne inclusive sono in grado di premiare sul fronte della reputazione e della relazione con i consumatori in primis il settore della cosmetica/beauty (52%), poi la cura della casa (47%) e quella della persona (46%). Per l’abbigliamento la premialità è al 38%, per l’alimentare al 32%, per il settore auto al 26%. Chiudono telefonia (al 22%) e finanza (17%).
Per il telemarketing il 95,3% delle segnalazioni al Garante
E se i classici stereotipi, come evidenzia Eumetra, hanno fatto il loro tempo, il ripensamento delle strategie commerciali dovrebbe riguardare anche una pratica molto più moderna: il telemarketing. Nella relazione annuale del Garante della privacy, le segnalazioni riguardanti reti telematiche e marketing sono state 90.504 su un totale di 94.948: ben il 95,3% del totale. Lo sottolinea l’Unione Nazionale Consumatori, il cui presidente, Massimiliano Dona, afferma come ciò dimostri che “la vastità del fenomeno delle telefonate moleste è oramai del tutto fuori controllo”. Per questo, Dona aggiunge che “urge che il Parlamento intervenga con una nuova legge, che obblighi i call center a usare la numerazione riconoscibile, modifichi il Codice del consumo, considerando una pratica aggressiva anche una singola chiamata a chi è iscritto al Registro delle opposizioni, indennizzando in tal caso i consumatori, e tolga valore ai contratti fatti al telefono su luce e gas”. Al telemarketing illegale nel settore energetico, che è ai primi posti delle chiamate moleste insieme a quelle nel campo della telefonia, è del resto dedicato un intero paragrafo della relazione del Garante. “Per questo settore – conclude il presidente dell’Unione consumatori – bisogna impedire qualunque chiamata, intervenendo a monte dei call center”.
Alberto Minazzi