Nel 2024, il fenomeno ha riguardato circa 5,8 milioni di persone. Tra le cause, la Fondazione Gimbe sottolinea il crescente peso dei tempi delle liste d’attesa
Quando si dice che sempre più italiani rinunciano alle cure, il riferimento per fortuna non va alle terapie, ma “solo” a test diagnostici e visite specialistiche, escluso per di più il ricorso al dentista.
A sottolineare il senso della definizione data dall’Istat all’espressione “rinuncia alle cure” è Nino Cartabellotta, presidente della Fondazione Gimbe, prima di presentare i dati relativi al fenomeno. Una precisazione che, però, riesce a rendere solo in parte meno preoccupante la rinuncia ad alcune prestazioni sanitarie quando invece se ne avrebbe bisogno. La crescita della sua diffusione nel nostro Paese è infatti nel tempo costante. Anzi, l’anno scorso ha registrato una vera e propria impennata.
La rinuncia alle cure: un fenomeno che riguarda tutta Italia
Le elaborazioni Gimbe su dati Istat indicano che circa 5,8 milioni di persone, quasi 1 italiano su 10, nel 2024 ha rinunciato ad almeno una prestazione sanitaria, con una crescita di 1,3 milioni di individui in un anno, dopo l’incremento del +0,6% (pari a mezzo milione di persone in più) nel confronto tra 2022 e 2023.
La Fondazione sottolinea al riguardo anche la sostanziale omogeneità tra macroaree geografiche: a fronte di una media nazionale del 9,9% della popolazione, la forbice, in questa prospettiva, varia tra il 9,2% di rinunciatari del Nord e il 10,7% del Centro (al Sud la quota è del 10,3%). Al riguardo, aggiunge Cartabellotta, l’evoluzione negativa ha portato a includere, tra chi ha rinunciato a test e visite, anche “le fasce di popolazione che prima della pandemia si trovavano in una posizione di “vantaggio relativo”, come i residenti al Nord e le persone con un livello di istruzione più elevato”.
Le cause delle rinunce e il tema delle liste d’attesa
Tornando alle classificazioni Istat, alla base della rinuncia c’è almeno uno di questi motivi: dalle difficoltà d’accesso (tra lontananza delle strutture e mancanza di trasporti, fino alla scomodità degli orari), ai problemi economici, legati ai costi eccessivi o all’impossibilità di pagare, e ai tempi d’attesa troppo lunghi.
L’analisi di Gimbe si sofferma in particolare su questi ultimi 2 temi, sottolineando che se l’aumento del 2023 era legato soprattutto alle motivazioni economiche (+31,2% rispetto al 2022), che oggi riguardano 3,1 milioni di persone, l’attuale impennata si lega in primis alla lunghezza delle liste d’attesa. In un anno, l’incremento legato a questa problematica è stato infatti del +51% e sono stati 4 milioni coloro che hanno rinunciato lo scorso anno ad almeno una prestazione a causa dei tempi troppo lunghi proposti dalle strutture sanitarie pubbliche per la sua erogazione, costringendo a rivolgersi al privato o a non effettuare esami e visite quando non si è in grado di sostenere la spesa.
Il decreto legge bloccato dai decreti attuativi
“Il vero problema – osserva Cartabellotta – non è più, o almeno non è soltanto, il portafoglio dei cittadini, ma la capacità del Servizio Sanitario Nazionale (Ssn) di garantire le prestazioni in tempi compatibili con i bisogni di salute. Ridurre le liste d’attesa non è solo una sfida organizzativa o politica: è l’unico modo per impedire che l’universalismo del Ssn ceda il passo a una sanità per soli abbienti”. A fronte di “cittadini sempre più intrappolati nella rete delle liste di attesa” la Fondazione ha dunque sottolineato come, a un anno dall’approvazione, il decreto legge sulle liste d’attesa non abbia ancora “prodotto benefici concreti per i cittadini”. In particolare, si punta il dito sul fatto che 3 dei 6 decreti attuativi previsti non sono stati ancora pubblicati. Infine, conclude il presidente di Gimbe, “a oggi non esiste alcun dataset pubblico che documenti una riduzione dei tempi di attesa”.
Alberto Minazzi