La scienza testa una tecnica pioneristica: sbiancare le nuvole per raffreddare l’oceano e proteggere uno degli ecosistemi più preziosi del pianeta
Il cambiamento climatico sta mettendo in crisi i mari del pianeta.
Uno degli effetti più drammatici è lo sbiancamento della barriera corallina, un fenomeno sempre più frequente e diffuso causato principalmente dal surriscaldamento delle acque.
Le barriere coralline dell’Oceano Atlantico, del Pacifico, dell’Oceano Indiano e del Mar Mediterraneo sono oggi costantemente sotto stress. L’oceano assorbe infatti circa il 90% del calore in eccesso generato dalla combustione di combustibili fossili, e questo ha conseguenze dirette sugli ecosistemi marini.
Tra i progetti più avanzati per contrastare questo fenomeno c’è quello sviluppato dalla Southern Cross University, in Australia. Gli scienziati, guidati da Daniel Harrison, ingegnere, pilota e oceanografo presso il National Marine Science Center, stanno portando avanti da alcuni anni una sperimentazione basata su un principio semplice quanto ambizioso: rendere le nuvole più bianche per riflettere la luce solare lontano dalla superficie oceanica.
Come funziona?
Questa tecnica, chiamata Cloud Brightening, consiste nello spruzzare nell’atmosfera microscopiche goccioline d’acqua salata attraverso speciali cannoni installati su navi.
Le goccioline, sollevate in cielo, fungono da nuclei di condensazione e stimolano la formazione di nubi più dense e soprattutto riflettenti. L’obiettivo è raffreddare localmente la superficie marina, riducendo lo stress termico sui coralli.
L’idea nasce da una teoria formulata negli anni ’90 dal fisico britannico John Latham.
Dopo un episodio particolarmente grave di sbiancamento di massa, nel 2016, della barriera corallina, il team australiano ha iniziato a testare questa teoria sul campo, in collaborazione con il CSIRO, l’Australian Institute of Marine Science e altre università.
Le nuvole come specchio
Il processo si ispira a fenomeni naturali: l’oceano, infatti, produce aerosol marini attraverso l’azione del vento e delle onde. Le goccioline d’acqua salata nebulizzate dai ricercatori imitano questo meccanismo.
Se incorporate in una nuvola, generano un numero maggiore di piccole gocce, rendendo la nuvola stessa più luminosa e in grado di riflettere una quantità maggiore di radiazione solare.
Negli ultimi mesi, il team ha effettuato diversi test nella zona della Grande Barriera Corallina, al largo del Queensland.
Gli scienziati coinvolti precisano che il Cloud Brightening non rappresenta una soluzione definitiva, ma un possibile strumento per guadagnare tempo e rallentare gli effetti della crisi climatica sugli ecosistemi marini. L’obiettivo resta quello di agire sulle cause del riscaldamento globale, ovvero l’eliminazione progressiva dei combustibili fossili.
Tra speranza e scetticismo
Nonostante l’entusiasmo, la geoingegneria solare rimane un tema controverso.
Diversi Paesi, come il Messico, hanno vietato per legge la sperimentazione di tecnologie simili, temendo effetti collaterali ancora sconosciuti e alterazioni pericolose delle dinamiche naturali.
Tuttavia, il programma australiano è tra i pochi ad aver ricevuto maggiore attenzione e approvazione all’interno della comunità scientifica, grazie al suo approccio mirato e a basso impatto.
Per ottenere risultati più ampi, Harrison e il suo team stimano che sarebbero necessarie almeno 800 stazioni di sbiancamento per influenzare in modo significativo la copertura nuvolosa sopra circa 1.200 chilometri quadrati della barriera. Una scala che, al momento, appare logisticamente ed economicamente molto complessa da raggiungere.
La barriera corallina: un grande patrimonio, ambientale ed economico
L’Australia continua comunque a sostenere il progetto.
La posta in gioco è alta: la Grande Barriera Corallina rappresenta non solo un patrimonio ecologico, ma anche una risorsa economica cruciale per il Paese, con un valore stimato di circa 4 miliardi di dollari l’anno derivanti da turismo e attività connesse.
Il prossimo passo sarà perfezionare la tecnica, ampliarne i test e valutarne l’efficacia a lungo termine.