Un esperimento tra Italia e Giappone svela come il cibo modelli la nostra identità: ogni boccone parla di appartenenza e memoria
Chi l’avrebbe detto che una fetta di pizza o un rotolino di sushi potessero toccare il cuore stesso della nostra identità?
Eppure è quanto emerge da uno studio congiunto tra psicologi italiani e giapponesi, pubblicato sul British Journal of Psychology, secondo il quale il nostro concetto di “io” si estende fino a includere immagini di cibi, soprattutto quelli legati alle nostre radici culturali.
E non tanto perché più familiari o perché ci sia un po’ di riluttanza ad assaggiare cibi nuovi ma perché esiste una profonda connessione tra sapori, storia personale e appartenenza culturale.
Insomma, il «sé» cognitivo è flessibile e si può estendere a stimoli concreti, ma la forza di questa estensione è modulata dal valore affettivo/culturale dello stimolo.
Molto di più di un semplice “preferisco il cibo di casa”.
Pizza vs sushi: l’esperimento
Il lavoro, guidato da Mario Dalmaso del Dipartimento di Psicologia dello Sviluppo e della Socializzazione dell’Università di Padova in collaborazione con l’Università di Waseda a Tokyo, ha incluso due esperimenti separati: il primo con 50 partecipanti italiani e il secondo con 50 partecipanti giapponesi, tutti invitati a partecipare a un curioso gioco psicologico: dovevano associare sé stessi o un “altro” a foto di piatti tipici italiani (lasagna, tiramisù, spaghetti…) o giapponesi (ramen, sushi, tempura…).
In alcuni blocchi di prove il sé era legato ai cibi della propria cultura, in altri a quelli dell’altra.
Il compito? Stabilire il più rapidamente possibile se la parola mostrata (“tu” o “altro”) corrispondeva all’immagine del piatto appena visto.
Il cibo non è solo carburante
In entrambi i gruppi il “sé” si è legato sia a cibi italiani sia a cibi giapponesi, ma l’associazione è risultata nettamente più forte per i piatti della cultura d’origine: gli italiani erano più veloci e più accurati quando “tu” era associato alla pizza o al risotto; i giapponesi lo erano con ramen e sushi.
“Questi dati dimostrano che il cibo non è soltanto carburante biologico, ma un elemento fondamentale della nostra identità – spiega Dalmaso -.Viviamo in un mondo globalizzato, e negli ultimi anni piatti di culture diverse – come il sushi – sono entrati stabilmente nelle abitudini italiane, mentre la cucina italiana è amatissima in Giappone e altrove. Ma nonostante la contaminazione culturale, le persone continuano a sentirsi più legate ai sapori che appartengono alle proprie radici».
Il cervello ama i sapori di casa
Lo studio si inserisce nel filone di ricerche sulla cosiddetta self-prioritization, l’effetto per cui stimoli collegati al sé (il proprio nome, il volto, la voce) vengono elaborati in modo più rapido ed efficiente dal cervello.
Qui, per la prima volta, il paradigma viene applicato a un ambito concreto e quotidiano come l’alimentazione, mostrando che anche immagini di cibi possono godere di un trattamento preferenziale quando sono intrecciate con la nostra storia culturale e affettiva.
Certo, come sottolineano gli stessi autori, nello studio ci sono dei limiti: i dati provengono da due culture geograficamente e gastronomicamente molto distanti, entrambe dotate di tradizioni forti e riconoscibili. È possibile che l’effetto sia meno marcato se si confrontassero cucine più simili, come quella italiana e quella francese, o popolazioni abituate a diete più ibride, come gli abitanti di Singapore o degli Stati Uniti. Inoltre l’esperimento si è svolto online e ha usato immagini statiche: resta da capire se la stessa priorità valga di fronte al profumo o al gusto reale di un piatto.
Tuttavia, capire che il cibo parla alla nostra identità aiuta a spiegare perché certi sapori “di casa” ci confortano nei momenti difficili, o perché i piatti tradizionali continuano a resistere anche nell’epoca delle cucine globali.
Tradizione e identità al centro di marketing, salute e inclusione
I risultati non sono solo teorici. Per il marketing alimentare, la ristorazione e le politiche nutrizionali indicano che il cibo che «parla alla nostra identità» è più persuasivo: campagne di promozione salutare che sfruttino le radici culturali possono avere più presa. Per l’integrazione culturale e la ristorazione multiculturale, conoscere che il legame identitario con il cibo è forte spinge a progettare esperienze culinarie che rispettino e valorizzino tradizioni, facilitando l’apertura senza cancellare l’appartenenza. In ambito clinico-nutrizionale, comprendere che la preferenza non è solo gustativa ma anche identitaria può aiutare a costruire interventi dietetici culturalmente sensibili.