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LUCKY MAN

LUCKY MAN

Passato, presente e futuro del campione trevigiano Andrea “Lucky” Lucchetta. Dagli inizi a Lancenigo per passare ai trionfi con la nazionale di volley e oggi un presente fatto di Tv e creatività

I’m a lucky man/With fire in my hands” (“sono  un uomo fortunato / con il fuoco nelle mie mani”) dice una canzone di qualche anno fa. Mai parole possono risultare più calzanti per descrivere il campione ma, soprattutto, l’uomo Andrea Lucchetta.  Un pallavolista capace di vincere 4 coppe CEV, 4 Scudetti, 1 Coppa delle Coppe e 4 Coppe Italia, 1 Supercoppa Italiana, 1 Supercoppa Europea, una medaglia di bronzo alle Olimpiadi di Los Angeles del 1984, l’oro ai Campionati del Mondo di Rio 1990, l’oro nella World League del 1990, 1991 e 1992, l’oro ai Campionato Europei di Svezia nel 1989 ed essere stato votato come MVP ai Campionati del Mondo di Rio del 1990.

Un palmares che lascia senza fiato, ma come è cominciata la carriera di Andrea “Lucky” Lucchetta? «Ben pochi lo sanno ma la mia vita di sportivo è iniziata al Tennis Club Treviso. Poi, grazie ai miei genitori Ettore e Maria, ho avuto la possibilità di frequentare il biennio all’Itis di Mogliano e qui, il mio insegnante di Educazione Fisica, mi ha iniettato il virus della pallavolo e ho iniziato a giocare a Lancenigo. Si può dire che sono diventato un pallavolista sull’asse Mogliano-Treviso».

Anche se ora vivi in Emila cosa ti porti dentro di questo territorio? «Mi piace ricordare a tutti le mie origini: come dico sempre, sono lungo e dritto come un radicchio e frizzante come un prosecco, non un cartizze però, che è troppo sofisticato. In poche parola, come loro, sono un prodotto della Marca!»

Osservandolo da spettatore, come valuti il rapporto tra lo sport e il nostro territorio? «Credo che il nostro territorio dovrebbe riprendersi quel bagaglio forte, quell’amore per la città riflesso nello sport, quella identità forte che si traduca in basket, pallavolo o rugby. Il caso della chiusura della Sisley è emblematico. Al di là delle scelte societarie penso che qualcosa, purtroppo sia sempre mancato in questo rapporto simbiotico tra la città e lo sport: non si é mai davvero creato quel cordone ombelicale indispensabile alla crescita. La squadra non è mai stata considerata dalla gente quel patrimonio della città quale realmente era ed è sparita nel gelo, nell’empatia. Mi fa rabbia pensare che non ci sia stata nessuna partita di addio e parla uno che a Treviso ha giocato solo come avversario, perché non mi hanno mai voluto. Viceversa a Modena, dove vivo, ho visto 6 generazioni riunirsi al PalaPanini per la propria squadra in un palazzetto pieno di gente».

All’interno della tua infinita carriera, qual è il successo a cui sei maggiormente legato? «Sono sicuramente i 4 scudetti consecutivi vinti a Modena, che mi hanno portato in Nazionale e a vincere l’Europeo del 1989 e i Mondiali del 1990. È stato incredibile vincere in casa di quella Nazionale che aveva organizzato i mondiali in patria per dominarli. Abbiamo trionfato di fronte a 300 italiani e 20000 brasiliani e in quel preciso istante è cambiato tutto: stavamo dando vita ad un movimento unico e forte, che ha permesso di far sognare e che, attraverso i suoi stessi sogni, ha ottenuto dei risultati incredibili. Quell’anno ho anche alzato la Coppa di miglior giocatore e non smetterò mai di sottolineare che ho potuto farlo solo perché i miei compagni me l’hanno permesso».

Sei uno dei campioni più rappresentativi della cosiddetta “generazione di fenomeni”, hai fatto parte di quella che è stata premiata come “Squadra nazionale del Secolo”, che effetto fa? «Noi abbiamo fatto parte di un ciclo, come c’era stato quello della Russia o quello degli Stati Uniti. Ne abbiamo aperto uno tutto nostro, frutto di sacrifici e rinunce. Abbiamo dato vita ad un movimento che ha permesso di diffondere, sotto altri profili rispetto a quelli canonici, quello che viene chiamato “Made in Italy”, facendogli toccare un’altra soglia di eccellenza. Con la Nazionale Italiana si allenavano altri stranieri, qui da noi giocavano i migliori al mondo, che poi ci trovavamo come avversari nelle competizioni, cosa che rendeva il tutto più difficile ma più stimolante. Mi preme dire che eravamo una squadra con un alto spessore etico e morale».

I tuoi figli, però, hanno scelto il basket. Dispiaciuto? «La cosa più commovente, in questa scelta, é stata riportare i miei genitori a rivedere una partita giocata alla Ghirada di Treviso, dove ho iniziato anch’io. Ai miei due figli, Lorenzo e Riccardo ho sempre cercato di dare l’opportunità di raggiungere i loro obiettivi, senza forzature. Hanno fatto le loro scelte e io cerco di accompagnarli in questo. Nonostante il cuore di papà sperasse nel volley, ho deciso di trasmettere loro quello che sono stati i miei valori di sportivo: una grande capacità di autocritica, un comportamento etico, il fatto di essere un uomo squadra, di creare gioco per un compagno, come accade nella pallavolo. Ho tradotto il volley in una specie di “bignami” del comportamento in una squadra di basket per i miei figli».

Sostieni il progetto “Ogni Uomo è un Educatore” in cui racconti come in ogni incontro che disputavi, ipotizzavi che fra le centinaia di persone che guardavano la partita nell’ultimo anello fosse seduto un bambino. E di fronte a lui fosse necessario un comportamento leale e corretto sportivamente, perché tutti i bambini assorbono come spugne qualunque cosa. Che significato ha per te tutto questo? «Ho scritto “Ogni Uomo è Educatore” 4-5 anni fa. Siamo nella generazione di facebook, la generazione che sa smorzare le frasi ma non i toni della sportività. Il fulcro di tutto sta nella condivisione, ma non nella classica definizione del termine legata al mondo dei social, quanto nella corretta sportività. Ogni sportivo deve immaginare di trovarsi di fronte agli occhi azzurri, limpidi e puliti di un bambino e di poter reggere quello sguardo. In quel momento lo sportivo è un idolo e un modello, e quella limpidezza e purezza cui è messo di fronte può cambiare in un istante. Sembra così difficile per alcuni pensare a questo e certi comportamenti sono enfatizzati a torto. Per me era più facile: il volley é uno sport in cui l’uno é necessariamente al servizio dell’altro».

Sull’onda di questa tua attenzione ai giovani è nato lo Spike-Team: un cartone animato che somma divertimento e sani valori. Come ti è venuta questa idea? «Mi sono reso conto che la visualizzazione era il mezzo maggiormente educativo. Lo Spike Team è una sorta di team building per bambini: si basa sui sani valori dello sport e della vita e ha un forte potere energetico. Non é un caso se i ragazzi protagonisti del cartoon alla fine non vincono sul campo. Il loro successo lo conquistano infatti nella vita, imparando a convivere tra loro e a mettersi al servizio gli uni degli altri. Il loro scopo é salvare la torcia olimpica, simbolo supremo di quei valori che lo sport racchiude, rubata dai cattivi (gli antivalori). La squadra nasce e si rafforza nella sua tenacia, nel sacrificio. E non é un caso neanche che Lucky, il loro allenatore, li sottoponga a discipline diverse: imparare dagli altri sport é sempre qualcosa di positivo e costruttivo».

Quest’anno verrà messa in onda una seconda serie animata, intitolata Il sogno di Brent, sul tema dello sport parolimpico, come sei arrivato a questa nuova idea? «Partendo dal presupposto che, per mia natura, non mi accontento mai, ho dato vita a questo nuovo progetto, scritto a quattro mani con Alessandro Belli. Il messaggio, di cui spesso poco si parla ai bambini, é quello che a volte le curve della vita possono spezzarti ma che lo sport ti dà la grande opportunità di poterti rimettere in pista. La forza sta nel poter narrare tutto questo, nel comunicarlo in un linguaggio comprensibile ai bambini. Ho anche ideato il reality Spike Girls, nel quale si mettono a nudo sogni e rinunce di una serie di ragazze che lasciano il loro mondo, la loro famiglia, per arrivare ad indossare la maglia azzurra. La mia idea é quella di creare una sorta di percorso: il sogno del cartone animato, si trasforma in aspirazione nel live e si realizza nella maglia azzurra. Un percorso per diverse età, il mio scopo é quello di riuscire a parlare con lo sport al bambino, alla sorella adolescente e alla madre, ad ognuno col proprio linguaggio».

Sportivo, autore, dj alla radio, commentatore televisivo, la tua caratteristica principale è senza ombra di dubbio la poliedricità. Nessuno si è reinventato così tante volte come hai fatto tu, qual è il tuo segreto? «La mia poliedricità é data dal mio desiderio di comunicare questa sorta di rapporto spirituale che ho con lo sport, che “anima la mia anima”. Condividere per me significa inginocchiarmi in piazza a giocare con un bimbo, cantare al Festivalbar o creare, come ho fatto subito dopo il ritiro, una ludoteca. Cerco di dare sfogo alla mia creatività con una linea di condivisione basata sul sorriso. Non esiste che qualcuno discosti il campione dal ragazzo».

Non si offenderà nessuno se diciamo che sei il Personaggio dello sport italiano. Se dovessi scegliere una definizione che racchiuda Andrea Lucchetta, vero e proprio personaggio dello sport italiano, come ti autodefiniresti? «Sono una sorta di pifferaio magico, con la voglia di animare gli altri in mondo trasversale, proprio come trasversale è la mia celebre cresta. Credo che il mondo non vada mai preso di faccia, ma come un velista che affronta il vento di gabbana, filosoficamente, trasversalmente e sempre col sorriso».

DI CHIARA GRANDESSO

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